Magazine Cultura

Flusso

Creato il 27 marzo 2011 da Fabry2010

di Roberto Saporito

“C’è una sola cosa, in questa vita,
che vale più della felicità, ed è la libertà.
E’ più importante essere liberi
che essere felici.”
(Tom Robbins)

Scrivere tutto come viene alla mente, tutto, senza filtri, senza neanche “pensare” a quello che si sta scrivendo, ma scriverlo e basta, in una sorta di esercizio zen, o qualcosa del genere. Il problema è che se cerco di scrivere il mio “flusso di coscienza” (tanto per dargli un nome), temo, che questo si interrompa, o che cambi in quanto smascherato, in quanto non più pensiero, ma scrittura. Bisogna che la trasformazione da pensiero a scrittura avvenga senza che il pensiero se ne accorga: come in questo esatto momento: io dovrei scrivere quello che sta avvenendo nella mia mente, dovrei scrivere le parole che questa partorisce di secondo in secondo, e non dovrei scrivere che dovrei scriverle: questo è uno dei primi problemi da risolvere. Già, ma come? Dovrei scrivere col pensiero, direttamente, come se fosse facile.
Il passaggio dalla mente alle mani trasforma, anzi, cambia, stravolge completamente il risultato scritto, che non è più un pensiero libero e svolazzante, come una farfalla, ma una sorta di prodotto finito, come una bottiglia di birra, già elaborato, pensato una volta di troppo per essere esattamente un “flusso di coscienza”. Come fare allora? Non lo so. Forse non dovrei pormi il problema, forse dovrei continuare a scrivere finché non smetto di scrivere di scrittura e comincio a scrivere “il flusso”, anche se potrebbe non accadere mai, potrebbe trasformarsi tutto in un serpente che si morde la coda, potrebbe ma non trovo alternative, oppure dovrei alzare gli occhi dalla tastiera del computer portatile e guardarmi intorno…alzo gli occhi…sono sul terrazzo di una casa, a Genova, non è casa mia, è una giornata strana, con troppe aspettative, c’è una brezza lievissima ma piacevole, c’è il sole e il cielo è azzurro, è mattina, non presto, è estate…ma neanche così funziona…o forse sì…perché sto scrivendo? Perché no…Quella dello scrivere è una forma di presunzione? Forse…e allora? Dov’è il problema? Il problema è che così si ammette che ogni scrittore è presuntuoso per il solo fatto che scrive…Forse, e allora? E allora niente, constatavo un fatto, forse evidenziavo una verità, anzi è sicuramente una verità…no, non è vero, non è neanche una verità, sono sprovvisto di verità…Ma è un problema? No, non so, forse, è importante rispondere a questa domanda? Sì, forse, non lo so, boh…A chi interessa quello che scrivo? Non lo so, ma non è questo il punto…ma allora qual’ è il punto? Non lo so, è probabile che non esista un “punto”, è probabile che sia un falso problema…andiamo avanti, no, meglio, andiamo a vedere che cosa succede in giro per Genova…meglio sì…in fondo pensano che sia qui per questo…
E questo è tutto quello che riesco a scrivere? Ma bene, ma bravo, bello sforzo, veramente…un capolavoro, un bel capolavoro del cazzo…
In fondo sono unicamente uno scrittore in crisi, bloccato? Può darsi, sì può darsi. Ma un benzinaio in crisi ha i miei stessi problemi? Non penso: un pieno di benzina è sempre un pieno di benzina, anche se il benzinaio è in crisi, ma il benzinaio non è bloccato, si può bloccare la pompa di benzina, ma quando mai il benzinaio. Io invece sono bloccato, non riesco più a scrivere, io sono la pompa di benzina rimasta vuota. Sono ormai tre anni che lavoro al mio terzo romanzo, ma non succede niente: la pompa di benzina non è solo vuota, è rotta. Irrimediabilmente, forse. E c’è un colpevole per questa cosa? Forse.
Forse però il colpevole sono solo io, “solo”, si fa in fretta a dire “solo”. Forse non c’è colpevole, forse la “vena” creativa si è “solo” esaurita, come una vena aurifera, o diamantifera, o petrolifera. Forse, forse. E invece no, invece c’è un colpevole. Eh sì. Forse il colpevole ha un nome e un cognome, anzi sicuramente ce li ha: Bernardo Aurelio. Bernardo Aurelio, critico letterario televisivo, una nuova professione, una di quelle nate nella seconda metà del XX Secolo. Che poi chiamarlo critico letterario è una esagerazione: conduttore televisivo generalista riciclato alla cultura. Cultura, come se quella fatta in televisione fosse cultura. Comunque. Mi ha sputtanato a morte nella sua trasmissione del cazzo pseudoletteraria, mi ha sputtanato a morte in prima serata, di fronte a milioni di telespettatori, dei quali, uno, dei milioni, aveva acquistato i miei due romanzi, anche se forse, sono milioni diversi quelli che comprano libri e quelli che guardano la televisione. Ma solo forse. Ho fatto una tale figura da imbecille che sono rimasto come traumatizzato, o qualcosa del genere. Non mi sono più ripreso. Bernardo Aurelio, lo stronzo, oggi, non fa neanche più quel programma, la cultura non tira molto in televisione, ma quando mai ha tirato. Oggi vanno di moda quelli che cercano le persone scomparse, che se sono scomparse ci avranno i cazzi di loro buone ragioni, e quelli che risolvono casi irrisolti, meglio se ammazzamenti misteriosi, meglio se a sfondo sessuale, gli ammazzamenti.
Lui è sempre un divo della televisione da prima serata. Io invece ho smesso di scrivere, di scrivere un libro del quale ho già incassato e speso il lauto anticipo.
E forse è per questa ragione che sono qui, a Genova: perché lui, Bernardo Aurelio, lo stronzo, è qui, a Genova, per uno speciale della televisione sul G8. Perché lui, Bernardo Aurelio, lo stronzo, è qui, adesso, in questo preciso momento, a fare il suo lavoro, sperando che qui, a Genova, succeda chissà che cosa, una strage, magari, o qualcosa del genere, comunque qualcosa che faccia “audience”.
L’ho visto, ieri, che prendeva l’aperitivo nel dehors di un caffè in compagnia di alcuni dei suoi simili. Lui non mi ha visto, ma è anche probabile che lui non si ricordi neanche chi sono io. E poi in tre anni io sono molto cambiato: mi sono trasformato da giovane scrittore trentasettenne “bel tenebroso” dai lunghi capelli neri, nerissimi, folti, luminosi, a triste quarantenne dai corti e spenti capelli (quei pochi superstiti) bianchi. Lui no, lui è rimasto identico, forse sembra pure più giovane, e bello, e abbronzato. E a lui, mentre sorseggia l’aperitivo, chiedono di firmare autografi, perfino qui, a Genova, mentre succede quel che succede, che poi io non la sto seguendo questa cosa del G8, non mi interessa, ho altri problemi io, anche se chi mi ospita è convinto che sia qui per scrivere una storia su quello che accadrà in questi giorni. Ma io non riesco più a scrivere: come devo dirlo.
Ieri passeggiavo per il centro di Genova, beh, per quella parte di centro dove si può ancora passeggiare, e mi sono bloccato di fronte a una vetrina di armi da taglio: coltelli di tutte le misure, dai piccoli Victorinox colorati ai complicati coltelli a serramanico degni di una gang del Bronx. Nella stessa vetrina c’erano anche enormi spadoni, lunghe sciabole giapponesi, e archi e balestre, queste ultime nere, tecnologiche, cattive, al limite estetico del mitra. Ne ho comprata una: piccola, maneggevole, perfetta, e a detta del gentile negoziante, micidiale, e a detta mia, bellissima e ammaliante come una Porsche.
Nel piccolo trilocale del mio amico di Genova ho impugnato la balestra e mi sono sentito immediatamente diverso, mi sono sentito meglio, mi sono sentito come penso ci si senta impugnando una pistola: mi sono sentito “superiore”, invincibile, pronto a tutto. L’ho caricata con la sua freccia, bella come una rosa nera, l’ho puntata verso il mare, e lì, sul piccolo terrazzo, ho sorriso come non sorridevo da tanto tempo. Tre anni? Forse. Tre anni, sì. Proprio tre stupidissimi anni.
E’ semplice da usare. E’ facile e precisa e veramente micidiale. E non fa rumore.
Sono tre giorni che seguo Bernardo Aurelio, dalla televisione, naturalmente, lui e la sua truppe non si sono mai mossi dalla terrazza del loro albergo a cinque stelle con piscina. E tutta questa cosa degli scontri di Genova non ha fatto che aumentare la mia rabbia nei confronti di Bernardo Aurelio, come se fosse lui il colpevole di tutto, di qualunque cosa: lo so, non è ragionevole, “morale”, “etico”, quello che volete, ma io ho altri problemi per la testa. I miei.
Bernardo Aurelio è seduto sulla terrazza dell’albergo con vista sugli scontri, con l’odore acre dei lacrimogeni che arriva fin quassù, io sono entrato perché in fondo sono un giornalista, accreditato, con tanto di tessera stampa, oltre che scrittore, lui ha la sedia addossata al muro, non lontano dal parapetto, e anche a lui sembra che non gliene freghi nulla degli scontri dieci piani più sotto: per lui è “lavoro”, lucidatura di ego, punto. Mi siedo al tavolino di fronte al suo appoggiando la mia borsa di plastica rossa sul tavolo. Lui legge assorto il giornale e a intervalli regolari sorseggia l’aperitivo, non si accorge dell’esistenza del mondo esterno, e dire che tra gli elicotteri che volano e rombano bassi, e le sirene perenni, e gli scoppi, e gli spari e le urla, è difficile non accorgersi del mondo esterno, ma lui è tranquillo come un buddha, come sempre, nulla lo scalfisce. Tiro fuori la mia copia de Il Manifesto, lo adagio sulla borsa, estraggo la balestra che rimane nascosta sotto il giornale. Arriva un cameriere, ordino un Pastis. Posiziono la balestra in modo tale da colpirlo al cuore: non posso sbagliare, è proprio di fronte a me, a una distanza inesistente. Non posso e non devo sbagliare. Arriva il mio Pastis e il cameriere si allontana. Tiro il grilletto della balestra che emette un sibilo discreto. La freccia della balestra inchioda Bernardo Aurelio alla parete: sembra che osservi un punto lontano nel mare, non sembra neanche morto, sembra solo assorto, indeciso su cosa raccontare in televisione di questa giornata a Genova, di cosa dire e di cosa tralasciare, sorvolare. Smetto di respirare, mi guardo intorno, ma nessuno si è accorto di nulla, tutti continuano a parlottare e a bere e a scrivere e a leggere e a guardare sbalorditi quello che accade dieci piani più sotto. Respiro, guardo ancora una volta Bernardo Aurelio, lo stronzo, sorrido, mi alzo e mi allontano tranquillamente, anche se mi tremano un po’ le gambe, e respiro come se stessi per terminare la riserva di ossigeno.
Attraverso Genova come in trance, vedo ma non registro veramente ciò che vedo, come una telecamera senza pellicola, vedo il corteo, il fumo acre e nauseabondo, i manganelli, lunghi, la polizia che carica il corteo, il corteo che esplode in mille direzioni differenti, come le schegge di una lampadina impazzita, una Fiat Uno rossa triste e solitaria che brucia lungo il marciapiede, un tipo che con una mazza se la prende con la vetrina di una banca, e uno esteticamente uguale a lui che applaude il suo gesto eroico, le manganellate che colpiscono una suora, ma questo mi sembra così assurdo che forse non è vero, forse mi sono sbagliato, forse. La suora è a terra e perde sangue dalla testa. Forse.
Entro nel piccolo trilocale con vista sul mare della Liguria, prendo una bottiglia di birra Corona dal frigo, la stappo, apro il mio computer portatile, lo accendo. Osservo per un intero e dilatato minuto lo schermo bianco della schermata di Word, e ricomincio finalmente a scrivere.

*(pubblicato su M – RIVISTA DEL MISTERO, numero speciale “G8 di Genova”)



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