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Giochiamo a "Quello che (non) ho"

Creato il 27 maggio 2012 da Frufru @frufru_90
 La settimana scorsa sono rimasta per tre serate a seguire il programma di Fazio e Saviano, in onda su La7: Quello che (non) ho.  Il titolo riprende un brano di De Andrè che non poteva certo mancare in un contesto del genere, dedicato completamente alle parole.  Ogni ospite ha scelto di parlare di una parola che gli sta particolarmente a cuore, c'era ad esempio Guccini che ha parlato del cantautore,che non è altro che un camelopardo, come era stata chiamata la giraffa quando non si sapeva ancora quale genere di animale fosse. C'è stata Vanda Bianchi, staffetta partigiana, che ha parlato di Resistenza, iniziando così il suo discorso: «Sono figlia di un sovversivo. Quando ero piccola, durante il fascismo, non sapevo neanche che cosa volesse dire quella parola. Ne avevo paura. Quando mi è toccato lasciare gli studi, da bambina, mi sono messa a piangere perché avrei voluto studiare, capire come girava il mondo. Ma non c'è bisogno di avere un granché di istruzione, in certi frangenti. Basta un po' di buon senso.» È stato emozionante leggere tanta forza e speranza nei suoi occhi, occhi ancora giovani, perché chi lotta non invecchia mai. Anche il fazzoletto rosso alla fine ci stava proprio bene! 
Mi è piaciuta inoltre la parola scelta da Ettore Scola: quaderno. Una parola semplice che racchiude in realtà tante piccole sfaccettature, tante piccole realtà, tanti ricordi di anni passati, di epoche lontane.
Con grande tempismo anche Giulia ha elaborato, e raccontato, la sua parola: penna. Col altrettanto tempismo le ho promesso che avrei pensato alla mia, di parola. Finalmente, dopo quasi due settimane dal programma di Fazio e Saviano, l'ho trovata! Ho i miei tempi, ma meglio tardi che mai.
La parola che ho scelto è MANI
Mani che scrivono, mani che girano le pagine di un libro. 
Mani che diventano parole quando le parole non possono essere pronunciate né ascoltate, mani che sanno farsi portavoce di un linguaggio che per chi le parole può dirle ed ascoltarle è incomprensibile. 
Mani che applaudono, mani che tirano pomodori marci.
Mani che involontariamente diventano la nostra spia, con i gesti dicono anche quello che non diciamo a parole, quello che non vorremmo si sapesse. Sei lì, seduta su una panchina che parli con un ragazzo del più e del meno quando, all'improvviso, la tua mano prende il volo e atterra su una ciocca di capelli: gli psicologi dicono che questo indica un interessamento. 
Mani indice di attenzione o indifferenza, di coinvolgimento o noia. 
Mani che subiscono tutto il nostro stress, sudando a freddo, sentendosi scrocchiare le dita, sentendosi mordere le unghie.
Mani che scrivono striscioni, mani che lottano coi pugni in aria, mani che sognano un futuro migliore.

Mani sensuali, mani che si toccano, mani che si stringono camminando, piene d'affetto. Mani che si stringono anche tra sconosciuti. Sono la prima cosa che offriamo quando conosciamo qualcuno. Piacere, stringiamoci le mani. Riesci a sentire tutte le volte che queste mani hanno sudato? Riesci a sentire tutte le volte che si sono impregnate di caffè mentre hanno preparato il tiramisù? E quel profumo di fragola che non se ne andava via nemmeno dopo averci passato il sapone, lo senti?
Mani che rivelano che tipo di persona è la persona che le possiede: se guardi le mani di qualcuno puoi capire se quel qualcuno non fa niente o svolge un lavoro poco duro fisicamente, oppure se si spacca la schiena. Lo vedi dai calli, per esempio. C'è chi ha il callo dello studente, ce l'ho anch'io che non sono più, ufficialmente, una studentessa: ho un callo sull'anulare destro, dove da più di quindici anni si appoggia la mia bic blu. Ho avuto calli per aver usato le forbici per potare e "le manine" per cogliere le olive.  Le mie mani non sono ancora affaticate, non sono come quelle di mio padre, che ci ha impastato la terra da quando era un bambino. Non credo abbia mai avuto mani lisce. Da queste parti, in mezzo alla campagna, ci sono pochi sessantenni con le mani lisce. Le loro sono mani che hanno imparato un mestiere a quattordici anni invece di tenere penne e libri fino a trent'anni. Sono mani che si sono tagliate, che hanno visto la terra sotto le unghie, sono mani callose che hanno sudato tanto, mani che hanno lavorato duro affinché lavorassero meno le mani dei figli. 
Eppure è così bello usare le mani. Certo è meno faticoso stare seduti dietro una scrivania, ma vuoi mettere il profumo del pane? Vuoi mettere sentire il vento che ti sbatte addosso mentre vedi le tue piante crescere e dare i frutti? Vuoi mettere saper cucinare per tante persone o riuscire a tagliare e cucire un bellissimo vestito?
Quando ero in terza media sembrava che scegliere una scuola per imparare a lavorare con le mani fosse una bestemmia e invece non dovrebbe affatto essere così. Ci vuole chi fa il pane, chi fa il formaggio, chi aggiusta la rete elettrica, chi pulisce le strade. Non possiamo mica essere tutti avvocati e dottori.
Se c'è una cosa che le mani di mio padre mi hanno insegnato è l'importanza del lavoro, di qualsiasi lavoro, purché sia onesto. Purché lasci le mani pulite, purché non ti faccia venir voglia di metterle in tasca per vergogna.

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