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harry potter e i doni della morte – parte II

Creato il 03 agosto 2011 da Albertogallo

HARRY POTTER AND THE DEATHLY HALLOWS: PART II (Usa/Uk 2011)

locandina harry potter e i doni della morte - parte II

Cancellerò tutto quello che ho scritto la sera successiva alla visione dell’ultimo capitolo di Harry Potter, la seconda parte de I doni della morte, e ricomincerò da capo. Questo perché ho avuto la tentazione di scrivere un’analisi della saga, quando invece la recensione riguarda la pellicola in sé e per sé. Ma come parlare di una pellicola del genere, sipario di un’impresa decennale, senza fare riferimento ai precedenti lavori? Ci vuole sintesi. Riproviamo allora a parlarne limitandoci a riassumere per punti le considerazioni generali sulla saga, per poi dedicarci alla disamina di questo I doni della morte – Parte II.

La saga di Harry Potter non è stata poi così importante per il discorso cinematografico in sé, non avendo aggiunto proprio nulla alla ricchezza del linguaggio della settima arte, ma si è rivelata notevole per alcuni spunti più generali, che elenco brevemente:
1) la sua lunghezza: otto capitoli. Esistono precedenti simili nella storia dei film di consumo e di genere? Che io sappia no, non a questo livello di successo nei botteghini;
2) il dispendio di forze economiche e produttive: sempre sulla cresta dell’onda in quanto a tecnologie e in più con un cast di attori che va a pescare tra il meglio del cinema britannico degli ultimi vent’anni (andate a scorrere tra i nomi e vedrete un numero altissimo di nomi più o meno celebri);
3) l’impegno nell’assoldare una nuova generazione di giovanissimi attori (su tutti il trio Radcliffe/Watson/Grint) che ha partecipato nella quasi totalità a tutti gli episodi della saga, crescendo attorno ad essa;
4) la mole di pubblicità e marketing imbastita intorno all’evento, trasformato in una sorta di happening a livello planetario. Secondo solo a Micheal Jackson.

La considerazione finale è: basterà tutto questo a proiettare la saga cinematografica di Harry Potter nella Storia? Secondo me no. A mio modo di vedere l’impresa cinematografica, alla fine della fiera, ha riversato tutto il suo successo sui libri. Chi avrebbe mai conosciuto l’opera di J.K. Rowling senza le trasposizioni cinematografiche dei suoi libri? Secondo me un sacco di gente in meno. E va anche aggiunto che il successo della saga letteraria è stato mondiale e indiscutibile: i libri sono diventati oggetto di culto, e saranno loro a sopravvivere.

Passiamo al film in questione. David Yates, sopravvissuto alla selezione naturale per un regista che fosse all’altezza di gestire un’opera così complicata (i precedenti Chris Columbus, Alfonso Cuarón e Mike Newell usciti di scena uno dopo l’altro per ragioni sempre diverse), ci ha messo quattro film per trovarsi a suo agio. E ci regala un’opera che abbandona la pretesa di riuscire a racchiudere l’intero universo potteriano, traboccante di eventi e di personaggi, impegnandosi a inserire, di tanto in tanto, spunti cinematografici che in qualche maniera distinguessero la pellicola dalla recente invasione di film dedicati all’universo fantastico (una moda sorta sui successi dello stesso Harry Potter e del Signore degli anelli di Peter Jackson). Gli esperimenti precedenti erano tutti più o meno falliti nell’intento (sebbene al fan medio la cosa non sia mai interessata molto): troppo poco “action”, troppo lungo, troppo lento. Questa la mia opinione sui quattro precedenti episodi della gestione Yates. Sia ben chiaro: Yates è un regista onesto che ha sempre portato a casa il risultato. Semplicemente, se una sera avessi voglia di buttarmi su un film d’avventura, non sceglierei un film di Harry Potter. Ripiegherei piuttosto su Il Signore degli Anelli (con delle riserve), su Star Wars, su Indiana Jones, su Ritorno al futuro. Questi sono gli esempi di saghe nobili, i grandi classici con i quali Harry Potter a buon diritto avrebbe dovuto competere. Purtroppo non ce l’ha fatta, e nemmeno quest’ultima fatica si può dire all’altezza della sfida. Per quanto, a mio modo di vedere, si tratti del film meglio riuscito della saga, sebbene il mio preferito rimanga L’ordine della Fenice, il capitolo meno action di tutta la saga, quello più sobrio, più di spionaggio per così dire. Quello che, assieme al Prigioniero di Azkaban (il peggiore secondo molti), è reputato il meno bello del mucchio.

Il film taglia corto e porta subito gli eventi sullo scontro di Hogwarts. Nel libro la preparazione è più lunga e i nodi (tantissimi) lasciati irrisolti nei precedenti episodi vengono sciolti uno alla volta, con una sapiente amministrazione dei tempi. Yates, per dirla male, se ne fotte: li butta uno appresso all’altro appena l’occasione si presenta. E secondo me fa bene: capisce finalmente che non può stare dietro ai ritmi del libro. Hai voglia a studiare soluzioni raffinate per prendere il giusto tempo per l’approfondimento psicologico! Confrontarsi con il libro su questo piano sarebbe stata una sfida persa. E così giù eventi, eventi, eventi, la trama si svolge con estrema rapidità. E io sono felice così, perché non mi annoio, non sono costretto a subirmi tonnellate di primi piani di Daniel Radcliffe e compagnia briscola e lunghissime e noiosissime panoramiche su paesaggi incontaminati. Certo, adesso che i libri li ho letti vedo che si perde molto di ciò che c’è di bello in Harry Potter, cioè tutti gli altri: tutti i comprimari, nessuno escluso, finiscono sullo sfondo. Certi, come Hagrid, onnipresente nei precedenti episodi, vengono relegati a poco e niente. I momenti più intensi e più drammatici sono mozzati via. Oh mio dio, Yates è impazzito! Ma come? Proprio sul più bello decide che non gliene frega più niente di Harry Potter? Io dico: meglio così. C’è ritmo, c’è intensità, c’è la battaglia, c’è il sudore di Harry, la sua sofferenza immane nel cercare di raggiungere quell’obbiettivo che da dieci anni lo ossessiona. C’è il desiderio irrefrenabile di metterli davanti subito, lui e il cattivone Voldemort, farli picchiare una volta per tutte. Il dosaggio dei tempi è quello giusto. Solo una pecca: il duello finale è clamorosamente sbagliato. Pazienza.

È la prima volta che esco, se non divertito, per lo meno non assonnato da una film di Harry Potter. La regia è migliorata e funziona bene il confronto tra Voldemort e Severus Piton (il mio personaggio preferito), e per quanto pacchiano il discorso vale pure per il dialogo tra Albus Silente e Harry. Le scene d’azione, certo, non sono al livello di Michael Bay, ma ci sono un paio di momenti intriganti – come la corsa dei tre ragazzi in mezzo al conflitto, presa paro paro dalla cinematografia di guerra più recente. Peccato per la scarsa fedeltà al libro, peccato davvero; ma il punto al quale Yates e i suoi sceneggiatori si sono dovuti arrendere è che una trasposizione cinematografica deve obbedire alle leggi del cinema e non della letteratura: doveva essere un finale forte, concitato, emozionale, proprio come nel libro, forse il più intenso della serie. E Yates c’è riuscito, infilandoci persino il vero finale della Rowling, che è quanto di meno affascinante e avventuroso ci sia, e lo descrive pure bene (qualche riserva sul trucco degli attori). Forse se al posto suo ci fosse stato un genio assoluto, un Terry Gilliam, che a quanto pare sarebbe piaciuto alla produzione – e ci mancherebbe – magari ne sarebbe uscito qualcosa di meglio, ma sono scettico. La verità è che il libro aveva detto tutto quello che c’era da dire, a tal punto che quest’ultimo capitolo non può nemmeno essere considerato un film a sé. Sfido ad andare a vederlo e capirci qualcosa senza almeno conoscere la prima parte: mancherebbero comunque tanti riferimenti ai film precedenti. Per questo è difficile parlare dei Doni della Morte – Parte II come un’opera a se stante, semplicemente perché non lo è. Nel non esserlo, il regista ha trovato una libertà di esprimersi più rilassata: il peggio è già passato. È andata bene così, il film è godibile. Finalmente ce ne siamo liberati. Cosa rimarrà di questa saga io non lo so: probabilmente solo il volto di quel Daniel Radcliffe dodicenne, con i capelli folti a caschetto, gli occhiali enormi e la cicatrice disegnata a matita rossa sulla fronte, la perfetta trasposizione nella realtà di un personaggio letterario che, a modo suo, ha segnato un’epoca.

Francesco Rigoni

Post scriptum: in questo film l’inutilità del 3d è assoluta. Ma a qualcuno piace davvero?



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