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Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1. La recensione

Creato il 21 novembre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Il giudizio di Maurizio Ermisino

Summary:

Panem et circenses. Ovvero pane e gladiatori. Era questo il modo in cui i governi dell’antica Roma tenevano in scacco il popolo, dandogli da mangiare e degli svaghi. Panem è quello che, in un futuro non troppo lontano, è diventata l’America nella saga di Hunger Games, un paese che, dopo una guerra intestina, è diviso in distretti, divisi e uniti sotto la tirannia della capitale Capitol City. I circenses sono i tributi che ogni anno i distretti devono donare alla capitale, dei moderni gladiatori che si scannano in un gioco violento in nome della pace. Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) è colei che, con una freccia, ha scardinato e messo a nudo questo sistema, ne ha rivelato l’ipocrisia. Ora è un simbolo, la ghiandaia imitatrice, che può spingere in tanti a ribellarsi. Dopo aver distrutto il campo magnetico degli Hunger Games, in Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1 è nel Distretto 13, che si credeva distrutto, il posto da dove partirà la rivolta.

Divide et impera. Dividi e comanda. Nel terzo capitolo di una saga che deve molto all’antica Roma (fate attenzione ai nomi dei personaggi) capiamo come Capitol City abbia messo in pratica un altro caposaldo dell’impero romano: quello di tenere scollegati tra loro i distretti per governarli meglio. In Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1 è ancora più evidente come una delle chiavi della saga sia la comunicazione. Nei precedenti capitoli abbiamo visto come la ricerca del consenso e la costruzione dell’immagine fosse fondamentale per i concorrenti, e come il governo potesse usare ogni elemento a fini di propaganda. Qui facciamo un passo avanti: si parla dell’importanza dei simboli nelle guerre e nelle rivoluzioni. La ghiandaia imitatrice, il personaggio costruito attorno a Katniss, è come l’effige di Che Guevara, o la foto degli americani con la bandiera a Iwo Jima. In un racconto che mescola sapientemente gli elementi più inquietanti del secolo scorso, come i totalitarismi, alle questioni chiave del mondo di oggi, come l’immagine, la comunicazione, il sistema mediatico, capiamo chiaramente cosa accadrebbe oggi a un simbolo della rivoluzione. Probabilmente anche Che Guevara avrebbe un curatore dell’immagine, un autore dei testi, un regista sapiente. Un rivoluzionario sarebbe come una rockstar. Il terzo Hunger Games ci racconta la costruzione del mito, la nascita di un idolo.

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Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1 è un film molto diverso dai primi due. Si svolge per lo più nel sottosuolo del Distretto 13. È un affresco più cupo, più oscuro. È essenzialmente monocromo, dominato dal grigio delle tute da lavoro che sono il look sobrio che si sono dati nel Distretto 13. Il che avvicina ancora di più Hunger Games a 1984 di Orwell, il parente più stretto della saga: lì il grigiore era imposto dalla dittatura, qui da una società che intende combatterla, e finisce per somigliarle. Il terzo capitolo è un film ancora più sottile, e psicologico, dei primi due. Sì, è un film più adulto. La chiave della saga di Hunger Games è proprio questa. La differenza con tutte le altre saghe Young Adult del cinema (da Twilight ai più simili Divergent e Maze Runner) è proprio la sua universalità e la sua maturità. L’abbiamo chiamata “fantadolescenza”, fantascienza per adolescenti, ma è una definizione che si addice più a Divergent o a Maze Runner, vere e proprie metafore dell’adolescenza.

Qui i protagonisti sono giovani, certo, ma i temi di cui si parla – dittatura, propaganda, condizionamento delle masse – sono serissimi e complessi. E, cosa più importante, è adulta la confezione: da una sceneggiatura che tratta temi importanti non tralasciando mai l’emotività, ma senza mai scadere in semplificazioni o banalità, a un’ambientazione da incubo prossimo venturo, fino a una regia (di Francis Lawrence) solida e sicura. Ma, soprattutto, la saga di Hunger Games si basa su grandissimi attori: dal Presidente Snow di Donald Sutherland, al Plutarch del compianto, intensissimo Philip Seymour Hoffman, fino alla new entry, la fiera Presidente del Distretto 13 Alma Coin di Julianne Moore. Su tutti spicca lei, Jennifer Lawrence, che in questo episodio tira fuori tutta la sua anima, con un’interpretazione intensa, commossa e commovente. Adulta, cresciuta e maturata proprio come la sua Katniss nel corso della storia. Nella sua espressione dolente, quando, come una reporter di guerra, visita i luoghi distrutti per raccontarli, per diventare testimone, c’è una delle chiavi di questo terzo film, probabilmente il migliore della serie: il bisogno di verità. Katniss non riesce a fingere quando le chiedono di girare uno spot davanti al green screen. Deve visitare i luoghi del dolore, provarlo per testimoniare. In questo suo bisogno c’è quello di ognuno di noi. Quello che tutti oggi richiediamo con forza, al cinema, come all’arte e all’informazione: la verità.

Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net


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