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I Taxi, Uber, le polemiche storiche.

Creato il 27 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

La sentenza che decreta la fine, almeno per adesso, del servizio UberPOP in Italia, rappresenta solo la conclusione dell’ultima di una serie di battaglie che da lungo tempo avvengono tra diversi poteri ed i tassisti, intesi come entità astratta onnicomprensiva.

Le diatribe iniziano ben prima dell’avvento del mondo connesso e di internet come lo conosciamo noi, che si porta e si porterà sempre dietro marchingegni come Uber, ma è solo negli ultimi anni che i taxisti veramente vincono quando sono coinvolti in contenziosi che oscillano tra la regolamentazione e la liberalizzazione della professione.

Senza scomodare eccessivamente la storia, dal momento che si registrano forme embrionali di “tassismo” anche prima del 1500, è bene concentrarsi sul fenomeno così come lo conosciamo noi: cioè, dall’avvento dell’automobile.

Il Colore dei Taxi

Prima che in Italia le vetture adibite al trasporto di passeggeri fossero bianche come lo sono oggi, la colorazione era totalmente libera.
Nel comprensibile vuoto normativo che si era verificato nel momento in cui l’automobile iniziò a diffondersi maggiormente tra le persone, ognuno poteva colorare il suo taxi così come lo voleva. Fu solo nel 1927, per evidenti esigenze di riconoscibilità da parte del cliente che doveva usufruire del servizio, che venne sancito il nero ed il verde come colore obbligatorio da parte di un Regio Decreto. Era l’epoca del fascismo e, come si sa, le imposizioni del regime vennero mal tollerate dalla popolazione italiana post-costituzionale, e così, nel 1959, da parte del Parlamento fu di nuovo garantita totale libertà nella scelta del colore della vettura adibita a taxi, ed in generale dei mezzi pubblici.
Fu il panico totale: l’utente si trovava spaesato, non più immediatamente in grado di distinguere i taxi nel sempre maggiore traffico cittadino. In giro per il Paese, in un tipico esempio di italianità, il servizio taxi diventò un arcobaleno di colori. Al disastro psichedelico causato dal Parlamento tentarono di porre rimedio una decina d’anni dopo le municipalità locali, imponendo con ordinanze e deliberazioni un colore unico per i mezzi adibiti al trasporto pubblico nei territori di loro competenza.

La maggioranza delle autonomie locali scelse il giallo come colore, forse in un desiderio di emulazione nei confronti degli Stati Uniti, dove i taxi da sempre sono caratteristicamente di quel colore.
Allora come oggi, le rappresentanze dei taxisti italiani insorsero, lamentandosi di come non solo avrebbero dovuto spendere per riverniciare completamente la maggioranza dei taxi operativi, ma anche di come il nuovo colore standard avrebbe diminuito di molto il valore della vettura qualora fosse stata rivenduta. In quell’occasione, la battaglia fu persa, e i taxi rimasero gialli. Fino al 1992.

In adempimento di una legge di gennaio, il ministro Giancarlo Tesini fece approvare una nuova norma di colorazione. Questa volta fu il bianco il colore prescelto: forse, il meno costoso.

Dall’archivio della Stampa, 21 novembre 1992, si legge: “alcuni particolari caratterizzeranno i mezzi da un capoluogo all’altro: sottili fasce poste sulla fiancata delle vetture”. In questo caso, il colore bianco risolse il problema della spesa ulteriore che i taxisti si sobbarcavano per far riverniciare il taxi, e non pose problemi particolari alla rivendita del veicolo. Non per niente, si legge, “la colorazione uniforme ha avuto il consenso dei rappresentanti di categoria”.

Il Governo Monti

Quando il Governo fu presieduto da Mario Monti, ed era il periodo in cui “non c’era tempo da perdere”, le proposte di riforme si susseguivano come gocce di pioggia in un temporale estivo, in virtù di quel piano “cresci Italia” tanto sbandierato. Tra esse, si pensò bene di voler colpire i taxisti “liberalizzandone” la professione, nella misura in cui sarebbero state rilasciate molto più facilmente le licenze dei taxi; sarebbe stato depotenziato il ruolo centrale dell’Autorità dei trasporti e compariva l’idea di far decidere tariffe e orari di servizio agli enti locali. Apriti cielo. I tassisti e i loro rappresentanti insorsero a tal punto che, a mo’ di compensazione, il Governo Monti promise loro di avere “una seconda, gratuita licenza” così da poterla rivendere o regalare, recuperando la perdita originaria e contemporaneamente aumentando il numero di tassisti in circolazione, cosa per qualche motivo ritenuta fondamentale nell’ambito di un piano di crescita economica.

Neppure questa promessa fermò l’ondata sovversiva: i taxisti scioperarono, fecero sentire fortemente la loro voce. C’è chi in quell’occasione iniziò a parlare di “lobby”. E, lobby o no, il Governo cedette. Prevalse lo status quo.

Uber

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UBER

L’avvento del terzo millennio con tutta la sua rivoluzionaria interconnettività ha incrinato i tradizionali impieghi. E’ quel che devono aver pensato gli autori di Uber, quando permisero di fatto ad ognuno di improvvisarsi taxista, previ pochi e semplici requisiti. Così formalmente corretto, e fiscalmente pure, attraverso un sistema di pagamenti occasionali che facevano capo all’azienda in sé (il cliente pagava Uber per il servizio, Uber tratteneva la sua percentuale, pagava le tasse per la prestazione occasionale come sostituto d’imposta, e retribuiva col restante il “driver”), Uber permetteva di avere un’alternativa rapida ed economica ai servizi di taxi contemporanei. Permetteva, perchè è notizia degli ultimissimi giorni il blocco del servizio da parte del Tribunale di Milano, che ha ravvisato gli estremi di concorrenza sleale. L’azione giudiziale è inibitoria, dunque non per forza definitiva: Uber ha infatti quindici giorni di tempo per adeguarsi alle direttive impartite dal tribunale, ma difficilmente sarà possibile riavere ex-tunc il servizio di prima. Ovviamente, lo Stato di Diritto rende possibile un ricorso.

La sentenza giunge dopo aspre polemiche che, non dissimilmente a quelle che vi furono sotto il governo Monti, hanno comprensibilmente unito i taxisti, sicuramente, oltre che per una questione di principio, anche per una legittima valutazione economica.

Le obiezioni principali, oltre alla concorrenza sleale, hanno riguardato la sicurezza del servizio, giacché i drivers di Uber non sono sottoposti che ai requisiti e al codice del servizio stesso, diversamente dai taxisti che sono assoggettati allo Stato o alle municipalità locali (comunque enti pubblici) per ciò che riguarda controlli, omologazioni, orari. La mancanza della fantomatica “licenza”, di fatto il titolo dei tassisti, certificazione costosa e croce e delizia dei tassisti, è stato probabilmente il fattore scatenante, come già fu sotto Monti.

Una seconda vittoria pesante nel giro di pochi anni allo status quo dei tassisti, insomma, che ha fatto gioire le loro rappresentanze, mentre le associazioni dei consumatori si sono espresse sulla sentenza in termini di “danno enorme per gli utenti”, adducendo motivazioni di limitazione della concorrenza, della libertà di scelta, e del libero mercato in senso lato. Insomma, come in America dicevano i Repubblicani dei tempi andati: “the freer the market, the freer the people”.
C’è poi una comprensibile preoccupazione nei confronti di tanti “drivers” che hanno così perso almeno parte del loro reddito.

Quale che sia il futuro, resta evidente la quasi centenaria difficoltà nel modificare la realtà del trasporto pubblico ad opera di privati, e lo scetticismo quasi conservatore che permea l’ambiente. Uber ha già deciso di ricorrere contro la sentenza, mentre sul web e non solo la controversia è aperta e unisce e fa scontrare migliaia di persone ed (ex) utenti.

Tags:bianco,codice,colore,concorrenza,driver,drivers,giallo,liberalizzazioni,licenza,milano,monti,polemiche,requisiti,sentenza,sicurezza,sleale,taxi,taxisti,tribunale,Uber Next post

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