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“il 20 alle 20” presenta “quinto colore racconta l’italia raccolta di racconti di aa.vv.

Da Foscasensi @foscasensi

Dalla collaborazione tra Opposto.net Editore e Nonacasobistrot  nasce la rassegna “IL 20 ALLE 20” . Questo mese l’incontro sarà dedicato a  “QUINTO COLORE RACCONTA L’ITALIA – RACCOLTA DI RACCONTI DI AA.VV.” e si svolgerà il 21 febbraio 2012 alle ore 20.00 presso Nonacaso bistrot, in via Adda, 129 (traversa Viale Regina Margherita), Roma

 

“IL 20 ALLE 20” PRESENTA “QUINTO COLORE RACCONTA L’ITALIA RACCOLTA DI RACCONTI DI AA.VV.
Quinto Colore è alla sua seconda edizione ed è ambientato tutto in Italia con 25 racconti, le cui voci narranti giungono dalle tante regioni italiane, in un fluire alternato da Trentino Alto Adige, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Lazio, Umbria, Abruzzo. Da sud ed ovest, non possono certo mancare Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna. Alcuni degli scrittori che hanno preso parte a questa narrazione collettiva hanno scelto il dialetto per rendere più forti i legami con le proprie radici; altri hanno preferito sottolineare ambientazioni e paesaggi, interpellare la storia, fotografare situazioni e vicende sullo sfondo delle città, tra l’arte, l’amore, le suggestioni della propria infanzia, i vizi, il caos e il cemento.C’è chi ha testimoniato intense e toccanti vicende famigliari sullo scenario di un’Italia quasi scomparsa, dolorosa e dolorante, con le ferite ancora aperte, talvolta sulla guerra, tra crimini e amori, altre sulle catastrofi della natura; e ancora chi si è calato nel degrado, a viso scoperto sulla violenza, e spalle al muro per i controsensi e i malesseri, anche in occasione delle feste comandate. Chi ha descritto vite in luoghi oggi lontani dalla memoria, forse immaginari eppure così credibili. Racconti su un boss della mafia, su incantatrici e streghe nostrane, altri più surreali con tragicomiche scuole di musica a lezione da agili animali autoritari. Specialità culinarie in salsa onirica, partite a pallone nel campo più ambito e impraticabile: quello della vita. Preparativi di matrimoni tra solitudini, dolori, risarcimenti, perdite, ritrovamenti, ognuno ha disposto con cura il proprio tassello nel mosaico, con emozioni, lacrime, risate, ironia, pennellate di esistenze reali o immaginate; squarci che sferrano colpi duri. Qui non si scrive per fare un ricamo, ma per risvegliare coscienze. Questi 25 scrittori desti, ridestano. Urlano, attraggono, sognano, suggeriscono, e poi dimenticano e ancora ricordano. Dimenticano che la vita è una realtà oggettiva anche disperata; ricordano che questo loro Paese, talvolta umiliato, è amato. Questi narratori creano un colore unico, porgono la propria versione dei fatti, modificano gli eventi nella propria fantasia, delineando ritratti personalissimi e astratti e altre volte così nitidi e veritieri. Racconti visionari, appassionati, vibranti; vicende disputate su terreni variegati che hanno in animo una sola ragione di esistere. Il tema comune è l’espediente per attraversare i propri confini così intimamente vicini. L’invito è quello di lasciarsi trasportare da quanto hanno da dire. Custodire per sé anche una sola di queste storie, eleggendo quella più vicina al proprio sentire, sarà come aggiudicarsi tutte le ricchezze del mondo. Ognuna di loro ispira la via per conquistarle. Al lettore il compito di osservarne il percorso.

Estratti dei racconti – AA.VV.

Roberto Albini LA PASQUA LIBERATA

Abbacchio, io non ce l’ho con te, giuro. Tu mi sei arrivato sul piatto già così, a pezzi, cotto ma non troppo, ma credimi: non è per colpa mia che sei finito così. A me non piaci. Avrei i mezzi per spiegarti perché qualcuno ti ha strappato dalla tetta di tua madre per farti diventare piatto tipico di una festa, anzi quest’anno addirittura due contemporaneamente e delle quali nemmeno una ti appartiene. Ma non la so neanche io la risposta a questa domanda. Allora m’è venuta la curiosità e l’ho chiesto a zio Antonio.

 

Anna Maria Artini SILENZIO E VOCI

- Che ne sarà di me? Io che fine faccio? Madonna mia bella, pensaci tu. Io sono davanti a te, ti prego… aiutami… se muore come faccio? Tu sai tutto, vedi tutto… sei buona… sei bella… qua non sei tanto bella. Non ti cambierei con nessuna Madonna. Per me sei la più bella. Teresa era in ginocchio davanti al quadro della Madonna che tutti a casa sua dicevano miracoloso. Con enfasi continuò: – La nonna raccontava che avevi fatto guarire papà da piccolo gravemente ammalato di tifo. Hai fatto tornare zio Gino disperso in Russia. Era stanco, secco secco, pieno di pulci, ma vivo quando tutti lo piangevano per morto. Il miracolo più grande l’hai fatto con il matrimonio di Angelina incinta… chissà di chi. Quel bravo ragazzo ha dato pure il suo nome al “figlio della colpa” come diceva mamma piena di vergogna e di rabbia. Te lo ricordi?

 

Alessia Baghdikian I MOBILI

il padre non tollera la solitudine, la mattina. si sveglia prestissimo, alle 5 se non prima, e accende giornaliradio e caffettiere in relativo silenzio. poi passano i minuti e aumentano i rumori, scende e risale con la mazzetta dei giornali e i cornetti, alza il volume e commenta gr e tg, sbuffa e smania e, quando a suo giudizio ormai il mondo è sveglio, forse le seiemezza, alza il telefono e inizia a chiamare autisti e assistenti e collaboratori e tutto il circo che ruota attorno a chi ha fatto miliardi grazie a se stesso ma distrattamente lascia cadere favori e regalie e mance. è nato povero il padre. e povero è morto. in mezzo c’è stato un geniale re mida generoso, bizzarro, vendicativo a volte, poi dimenticato.

 

Cinzia Baldini PROSSIMA FERMATA

«Prossima fermata…»

L’avviso registrato arriva forte e chiaro e trapassa l’incoscienza del dormiveglia indotto dal ritmico e monotono sferragliare del treno sulle rotaie. Mi riscuoto.

“Sono arrivata. La fermata annunciata è la mia” confermo con foga a me stessa mentre raggiungo la porta del vagone. Solo pochi istanti di attesa ed una sferzata di aria invernale mi punge il viso.

«Bentornata» mi dico in tono augurale guadagnando la banchina.

 

Marina Bisogno SPECCHI D’ACQUA

Venezia, in primavera, risplende di luce. L’acqua scorre placida nei canali e i raggi del sole illuminano i ponti e gli scorci dei vicoli. La bellezza della città che dorme sull’acqua mi riempie il cuore. Mi aggiro per le strade come un cacciatore di teste, inquieto, sperando di rivederlo, di incontralo di nuovo, così, per caso, com’è successo ieri. A quest’ora sono tutti a casa per cena, i traghetti continuano a correre lungo la laguna, riportano i veneziani a casa. Non ho più l’età per lavorare, ma mi piace passeggiare, mi aiuta a pensare, a elaborare immagini … a scrivere. Sono un rabdomante di volti, di espressioni carpite per caso, cerco i miei personaggi tra la gente comune, fra i passanti inconsapevoli. Lui mi ha folgorato. Ci siamo incrociati per caso. Camminavamo entrambi a testa bassa, stavamo per scontrarci, quando un riflesso improvviso ci ha fatto sollevare il capo. Mi ha guardato intensamente, con lo spavento di chi sta per imbattersi in qualcuno o in qualcosa. Gli occhi negli occhi.

 

Cristiana Cervelloni IL TRUCCO DELLA SPOSA

Il giorno del mio matrimonio uscii da casa con una grande scolatura di rimmel e l’ombra fumé sbaffata ad arte. Mi venne a prendere Antonello, il mio futuro marito. Suonò al citofono e io risposi che sarei scesa subito. Antonello fu tutto tranne che impressionato dal mio aspetto e disse che si poteva far credere tranquillamente, agli amici e ai parenti, che fossero sbavature fatte di proposito, per il semplice gusto bizzarro degli artisti di essere originali. Disse anche che dal mio viso non traspariva nessuna espressione di tristezza e che quella era la mia faccia normale. Trovai quelle parole discutibili, ma non me ne curai e mi incamminai sulla Salita Annunziata affrontando l’avvenimento a testa alta, in abito carnevalesco e con la lacrima dipinta.

 

Paolo Costantini SIAMO GENTE TRANQUILLA

Era una mattina di metà luglio. Pedalavo sulla statale della Valnerina sotto un sole un po’ velato, felice di aver trovato una regione aspra, lontana dai luoghi comuni proposti da riviste patinate e operatori turistici. L’Umbria non è un ristorante con giardino, pensavo. E i santi che l’hanno abitata non erano simpatiche guide del WWF capaci di discutere con merli e passerotti. In alcuni tratti la strada costeggiava pareti rocciose a picco, con stratificazioni ondulate e dinamiche. Parevano felini addormentati pronti al balzo. Dopo un paio d’ore avevo finito l’acqua e mi preoccupai del rifornimento. Arrivato in un borgo, passai accanto a un giardinetto con alcune panchine attorno a un cippo, e una fontanella a un angolo. Mi fermai e mi dissetai. Il caldo afoso invitava a rimanere all’ombra, ed ero un po’ stanco; pensai quindi di riposarmi. Appoggiai la bici allo schienale di una panchina e armeggiai con catena e lucchetto. In quel momento sentii un fruscio di ghiaia smossa.

 

Angelica D’Agliano A LEZIONE DI MUSICA

Luce e silenzio furono le cose che colpirono Lodovico appena entrò nelle sale del Conservatorio di Lucca. Le mosche volavano senza ronzare e la polvere faceva luccicare le vetrate altissime della classe di pianoforte. Vetrate gotiche decorate a piombo con meloni, banane, carciofi (forse anche lattuga). Limoni e ananassi. Prugne. Sedani. Legumi d’Aleppo. Cicoria. I candelabri verde acqua si attorcigliavano alle colonne tinta avorio. I pavimenti erano dipinti con scene di caccia così belle che ci volevano le pattine apposta per muoversi dentro la stanza. Sulle sue, arancioni, c’era una elle ricamata che sembrava una chiave di violino. Però non gli piacevano molto, perché gli impedivano di pigiare i pedali del pianoforte nel modo giusto. Il maestro aveva quasi finito. Lodovico sentiva bisbigliare i suoi compagni che si erano radunati in cima alla classe, la lezione sarebbe cominciata a momenti.

 

Subhaga Gaetano Failla GESÙ CRISTO LO HA DA FARE SANTU

Per il centenario del terremoto e del maremoto di Messina e Reggio Calabria (28 dicembre 1908).

Don Giovanni, voi siete prete di l’Alta Italia e mi scusati ch’io non parlo bonu ’u taliano. Ma mi faccio capiri. Sono stato alla scola un anno. E saccio leggere e scrivere e cuntari. Piano piano, però. Turuzzu, il compagno mio, è ’nu santu. Turuzzu ha salvato a noi. Illo, lui, s’era svegliatu dintra ’a notti. E cumu chiuvìa! Pioveva, pioveva… Acqua, acqua, tutta ’a notti. Scrivete previte mio, don Giovanni, prete mio, perché tutti havino sapere che Turuzzu è ’nu santu e ha salvato a noi la vita, e Gesù Cristo lo ha da fare santu. Turuzzu, Salvatore Scaleso, di Giuseppe, è compagno mio, da quando eravamo piccirilli, bambini così alti, e giocavamo dintra ’a ruga, dintra quelle strade piccole piccole e scure. Turuzzu… no, Salvatore Scaleso – scrivete il nome come dev’essere – mi ha cuntato tutto.

 

Virginia Foderaro PIAZZA NAVONA

Non sempre l’inizio di un racconto coincide con il principio degli avvenimenti. Alle volte occorre cominciare dalla fine per capire cosa sia realmente successo e soprattutto perché.

Era salva. Richiuse la porta serrandola dietro alle spalle, certa che per quanto la riguardasse la sua storia era terminata. Fine. Direte voi. E invece è proprio da qui che inizia.

La vicenda si svolge sullo sfondo notturno di Roma, illuminata dalla luce di cento fiammelle: le stelle. E agitata da tutte le ombre che l’hanno da sempre abitata. Roma e i suoi millenni di vita. Roma e il suo essere al passo con la storia dell’umanità. Roma e il Vaticano. Roma e i turisti del Colosseo. Roma e i gatti nei rioni. Ma quelli sono di tutti.

 

Marco Fosca VUOTO A PERDERE

Sono stato in carcere undici anni e diciassette giorni. Adesso ho trentasette anni e mi trovo in una stanza all’ottavo piano del Reparto Tumori dell’ospedale San Carlo di Milano devastato da un cancro che mi ha portato via metà del volto e, come se non bastasse, mi ha fatto arrivare a pesare trentasette chilogrammi.

Una coincidenza perversa; mi è rimasto addosso un chilogrammo di carne per ogni anno che ho passato su questa terra! È l’unica cosa che mi ricorda che sono stato vivo. Una settimana che giaccio immobile su questo maledetto letto. Accanto a me c’è Michela, la mia compagna di questi ultimi tempi. Già, che sfortuna verrebbe da dire. Prima il carcere, poi il calvario di un male che non lascia scampo. Una sorte cosi dura da vincere la resistenza dei più duri degli uomini. Però non mi sono lamentato più del necessario e di certo non voglio stare qui a farlo.

 

Pino Giovine LEDA

Il colore dei suoi capelli suggeriva quello del miele appena raccolto e dorato dal sole, la sua bocca disegnava, sorridendo, due graziose fossettine sulle guance ed i suoi vivacissimi occhi erano verdi come il colore delle valli da cui un giorno lei si staccò per vivere la sua nuova vita di città. Leda era così e così cercherò di descriverla parlando di noi allora, come se ancora adesso, a distanza di anni, fosse accanto a me, in spensieratezza, come furono vissuti quegli anni, brevi, che con lei condivisi.

 

Cinzia Leo IL BISCOTTO 

Dal finestrino dell’auto Luca scorgeva solo l’oscurità. Il buio sembrava ingoiare persino la strada; qualche insegna luminosa sbucava dall’ombra di campagne lontane tentando di attirare la sua attenzione, ma impallidiva al cospetto di quell’immagine. Era la più colorata di tutte, il cartellone pubblicitario più grande che si fosse mai visto lì. Non era però la dimensione a renderglielo speciale, ma il disegno; così banale da sembrare vero e così semplice da dominare gli animi. Luca vi s’incantava, tutte le sere. Il padre attraversava la statale per tornare a casa, e lui sobbalzava a ogni buca o dislivello di quella via, e ce n’erano tante, di buche. Quella sera, il padre arrivò subito a destinazione, frenò e con un sospiro spense il motore dell’auto.

 

Mariacarla Marini Misterioso IL RE DELL’ABRUZZO

Gianni ha 6 anni, faccino pieno di lentiggini e sorriso catturaumorineri.Oggi, come ogni mattina, sta facendo colazione con latte e cereali. Elisa, sua madre, gli consiglia di portarsi anche la felpa dei Pokemon che non si sa mai, potrebbe sentire freddo. Gianni non è molto d’accordo ma, pur essendo solo in prima elementare, ha già capito come funzionano le donne e nello specifico sua mamma. Sa benissimo che se inizia con il suo vasto repertorio di capricci d’autore, le cose andranno avanti per le lunghe e lui, di fare tardi a scuola, non ha proprio voglia.

 

Roberto Marzano SPAVENTAPASSERI

È dall’eclissi totale di luna che non sono più lo stesso. Mi è mancato, quel riferimento di luce nello spazio; le stelle da sole non mi sono bastate. Malgrado sia, da innumerevoli anni, inchiodato nello stesso posto mi ritrovo, incredibilmente, sperso e solo. Anche la mia gamba è sola, nel senso che è un unico palo piantato nella terra, non vedo proprio come potrei andarmene. In quale modo potrei salire tutti quegli enormi gradini, protesi all’azzurro infinito, che ho di fronte? Mi son sempre chiesto se portassero direttamente in paradiso… Oppure all’inferno? In tal caso, sarebbe inutile fare tutte quelle scale, il mio inferno è già qui. Abbandonato, al limitare di questi filari di vermentino e albarola, sotto San Bernardino, in una rovente domenica di luglio. Il suono delle campane in lontananza accompagna le famiglie sorridenti aldilà delle accattivanti vetrine delle pasticcerie di Vernazza o Corniglia, E ciò mi fa sentire ancora più solo.

 

Monica Mazzanti LASSÙ SULLA COLLINA

°

Billy Warlick. Click.

Niente.

Caterina sorrise maliziosa. Che sciocca ad aver pensato che qualcuno sarebbe apparso al richiamo di quel nome. La nonna lo aveva sempre chiamato Billy, ma non poteva certo essere Billy, il suo vero nome era William, William Warlick!

Click.

Noooo! 21 William Warlick apparsero sul video del suo PC! Non era possibile, non aveva mica scritto William Smith o William Brown. E adesso, che fare… non rimaneva che scegliere tra quei 21 nomi sparsi nel mondo anglofono. Magari fossero state 21 facce, no! Erano 21 nomi perché alcuni non avevano foto; di altri, maledetti, niente figurava nel profilo personale.

E allora si mise a scartare quelli che poteva, gli australiani e gli americani, e poi, tutti quelli che riportavano la foto di uomini giovani e un po’ meno giovani. Ma rimanevano pur sempre i senza volto; e se qualcuno avesse messo una foto della sua gioventù? A conti fatti, scarta e riscarta, ne rimanevano almeno tre!

 

Rosalia Messina QUELL’ESTATE

Spingo il carrello lungo i corridoi affollati del supermercato. Devo fare in fretta, sto ancora cercando un’ispirazione per la cena di stasera; ho invitato Emilia – da poco a Catania per trascorrervi un paio di settimane – e arriverà verso le otto. Era da un po’ che non ci sentivamo, addirittura qualche anno. È sempre stato così, fra noi. Gli affetti – dice lei – sono come i cassetti, ogni tanto devono prendere aria, altrimenti am-muffiscono. Forse ha ragione. Dal momento in cui, l’altro ieri, mi ha telefonato, porto in giro un rosario di ricordi di quell’estate in cui diventammo amiche, fatti e persone che stanno sempre lì, ben riposti nella memoria, ma sui quali per lunghi periodi non mi soffermo mai. Che non ci si volti troppo spesso indietro, secondo mia sorella, è buon segno; dice che quando prestiamo più attenzione al passato che al presente vuol dire che stiamo invecchiando davvero.

 

Roberto Miano FAVA E PECORINO

Fava era cresciuto al Laurentino 38, nome da pistola per un quartiere periferico malato di solitudine e colorato di grigioblio. – Vai a prendere il latte al Quinto Ponte, al “Bar Cellona”, da Juan, e non fermarti a parlare con quelli della bisca che non mi piacciono. – Così, ogni volta, la mamma di Fava, che lo aveva cresciuto a pane e formaggini 3×2 della Sidis, svezzato tra gli scaffatoloni delle offerte dove lei arrivava a piedi in cinque minuti e ci risparmiava pure i soldi per prenderci la gianduiella, sottomarca di spalmabile, gioia per il figlio il quale – fortunata lei – non si formalizzava. Fava aveva un sorriso inevitabile. Aveva le ganasce collegate alle palpebre, la luce del giorno lo meravigliava ogni mattina e ogni volta sorrideva senza risparmiare nessuno dei suoi denti, distribuiti in bocca uno ogni fermata d’autobus. I suoi amici lo chiamavano Fava perché era magro, perché era sempre vestito di verde e soprattutto perché stava sempre con il suo amico, Pecorino.

 

Davide Morelli A PISA NON SEMBRA MAIACCADERE NIENTE

Pisa per me non è Piazza dei Miracoli, anche se da bambino talvolta mi perdevo nelle navate del Duomo e rimanevo affascinato dalle epigrafi della sua facciata. Non è Piazza dei Miracoli, nonostante la sua architettura romanica l’abbia resa famosa in tutto il mondo. Nonostante interi pomeriggi trascorsi sdraiati sul prato del Duomo. Per me non è nemmeno quella serie innumerevole di palazzi antichi, di ponti, di chiese, di biblioteche, di musei, di aule universitarie. Quando passeggio non percorro gli itinerari canonici dei turisti, che sono sempre a caccia dei luoghi tipici da cartolina illustrata. Preferisco le lunghe camminate al Viale delle Piagge o al giardino di Scotto. A chi la guarda superficialmente questa città sembra dormire un sonno profondo da secoli.

 

Dalila Pala S’APPRETTU DE SCIRI – IL BISOGNO DI SAPERE

Vi ritornai dopo tanto in cima ad un’onda mattutina; il mio sguardo poteva finalmente scorgerla crescere in un filo di terra da lontano: era sempre lei austera e costumata come le sue donne. Poi d’un tratto riconobbi il vociare del Maestrale veemente a violare i costoni laceri di lacrimate rocce: ora veloce, ora lento, ed il sole lambiva appena le insenature schiaffeggiate dalla spuma. Vi ritornai perché vi nacqui e perché lì ancora qualcosa mi apparteneva: non già per la successione che mi impose di partire da dove avevo dimora, quanto per quel richiamo di libertà che mi invocava non appena fuggivo dalle scartoffie quotidiane e con la mente mi conduceva a quelle campagne incontaminate che abitavano silenziose i miei ricordi: la Sardegna giaceva vergine nel mio cuore.

 

Mariella Palazzi MARMELLATA A COLAZIONE

La porta si aprì improvvisamente e comparve una vecchia con il bastone. Era ricurva e avvolta in un lungo scialle nero con le frange che spazzavano il pavimento. I suoi capelli neri arruffati sulla fronte lasciavano intravedere due occhi scuri e grandi, spalancati nel vuoto, su un viso grinzoso e lucide che a dir poco incuteva timore. Sembrava la strega delle favole e Dorina e Veronica avevano paura. Era vecchia, tanto da far pensare di avere ormai vissuto cent’anni. Chiedeva la carità e in cambio lasciava credere di essere una strega buona. Tutti ne avevano sentito parlare e almeno una volta l’avevano incontrata in paese, anche se lei cercava di non farsi mai vedere. A notte fonda, proprio come le storie più paurose insegnano, passava di nascosto per le vie del villaggio e andava al pozzo a riempire le bottiglie con acqua limpida, illuminata dal chiarore della luna.

 

Maria Antonietta Pinna TUTTA COLPA DEL POLISTIROLO

I cavalli sudavano, le code finemente intrecciate, si muovevano facendo risuonare sulle criniere i campanelli argentei, che, sotto il sole, risplendevano come diamanti. I corittos scarlatti delle donne ferivano gli occhi con la loro evidenza purpurea, gonne plissettate cadevano pesanti sulle gambe, gioielli in filigrana d’oro e corallo mandavano bagliori che impedivano di fissarli a lungo. Davanti c’era un carro con due enormi e pacifici buoi, corna arcuate, pelo lustro. Sopra il carro alcuni bambini di cinque o sei anni, berritta nera, camicia bianca, corpetto di panno scuro e bragas di orbace, sotto le quali spuntavano i calzonis bianchi di tela di lino con sa latranga.

 

Salvo Zappulla LA CASA DEL PROFESSORE

- La prima grande disgrazia che mi è capitata, è stata quella di nascere.

La seconda, quella di nascere in questa terra senza regole; la terza, quella di aver accettato tale situazione senza mai ribellarmi. Per questo scelsi di vivere senza Dio. Per questo mi presentai all’appuntamento.

Così inizia la sua storia il cieco seduto nell’angolo sotto la finestra della misera osteria. Mi attende sorseggiando il suo vino e cercando di immaginare attraverso il suono delle parole ciò che gli accade intorno. Difficilmente scambia parola con gli altri e in quel locale malfamato ha fama di persona scontrosa. Lo rispettano tutti e continuano a salutarlo anche se lui non risponde o si limita a bofonchiare qualcosa infastidito. Ogni giorno vengo a prenderlo per accompagnarlo a casa, sempre allo stesso orario e sempre lo trovo seduto nell’angolo dove l’ho lasciato. Lo guido per i viali desolati, in cambio mi regala una moneta e mi racconta le sue storie.


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