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Il dito medio del piede destro

Creato il 25 gennaio 2013 da Deasilenziosa

Il dito medio del piede destro, 1890. Di Ambrose Bierce.

1. E’ risaputo che nella vecchia casa Manton ci sono i fantasmi. In tutto il distretto rurale e persino nella cittadina di Marshall, a un miglio di distanza, quasi nessuno nutre al riguardo il minimo dubbio; lo scetticismo resta confinato a quegli ostinati che verranno chiamati “eccentrici”, non appena l’utile parola sarà parte del patrimonio intellettuale dell’ “Advance” di Marshall. La prova che la casa è infestata poggia su due fattori: l’affermazione di testimoni disinteressati che hanno visto di persona, e la casa in se stessa.
In primo luogo, la casa Manton non è abitata da mortali da più di dieci anni, e sta lentamente cadendo in rovina insieme coi suoi fabbricati annessi… circostanza questa che le persone di giudizio difficilmente avranno il coraggio di ignorare. La casa si trova un poco discosta dalla strada, nel tratto più solitario tra Marshall e Harriston, in un campo che un tempo faceva parte di una fattoria ed è mezzo coperto da rovi, che infestano un terreno sassoso e sterile.
La casa è in condizioni discrete, sebbene l’intonaco sia rovinato dalle intemperie e manchino i vetri alle finestre, avendo i piccoli maschi della regione manifestato, nel modo che gli è proprio, la loro disapprovazione per abitazioni senza abitanti.
L’edificio è a due piani, a pianta quasi quadrata; un portone a una sola anta ne buca la facciata, fiancheggiato, su ciascun lato, da finestre completamente sbarrate da tavole di legno. Le finestre corrispondenti al piano di sopra, prive di protezione, sono fonte di luce e pioggia per le stanze superiori.
Erbacce d’ogni tipo crescono rigogliose dappertutto, e alcuni alberi ombrosi, alquanto malridotti dal vento e inclinati tutti da una parte, sembrano intenti in uno sforzo d’insieme per fuggire.
In breve, come ha spiegato l’umorista di Marshall dalle colonne dell’ “Advance”: “partendo da simili premesse, l’unica conclusione logica è che la casa Manton è orribilmente infestata”.
Il fatto che in questa dimora il signor Manton ritenesse opportuno, in una notte di circa dieci anni fa, alzarsi e sgozzare la moglie e due bambini piccoli, partendo subito dopo per un’altra zona della regione, ha senza dubbio avuto la sua parte nell’indirizzare l’opinione di tutti in tal senso.
Davanti a questa casa, in una sera d’estate, arrivarono quattro uomini su un carro. Tre di loro scesero subito, e quello che aveva guidato legò le bestie all’unico palo superstite di quello che era stato uno steccato. Il quarto rimase seduto sul carro.
- Venite – disse uno dei suoi compagni avvicinandosi a lui, mentre gli altri si avviavano verso la casa – ecco il posto.
L’uomo a cui era stata rivolta la parola non si mosse. – Perdio! – disse bruscamente – questo è uno scherzo, e mi sa che voi siete tutti d’accordo.
- Forse io sono d’accordo – disse l’altro guardandolo bene in viso e con voce venata di disprezzo – Tuttavia ricorderete che la scelta del posto è stata lasciata, col vostro consenso, all’altra parte. Certo, se avete paura dei fantasmi…
- Io non ho paura di niente – interruppe il primo con un’altra bestemmia, e balzò a terra. I due raggiunsero quindi gli altri alla porta, che già uno aveva aperta con qualche difficoltà, perché serratura e cardine erano arrugginiti. Entrarono tutti. Era buio dentro, ma l’uomo che aveva aperto la porta tirò fuori candela e fiammiferi e fece luce. Sempre lui aprì quindi una porta che si trovava alla loro destra, nel corridoio. Questa diede accesso a una grande stanza quadrata che la candela illuminava solo fiocamente.
Sul pavimento c’era uno spesso tappeto di polvere. Negli angoli e dal soffitto, come brandelli di merletto logoro, pendevano ragnatele, che ondulavano nell’aria non più immobile. La stanza aveva due finestre, ma da nessuna si vedeva nulla, all’infuori della grezza superficie interna delle tavole di legno al posto del vetro. Non c’era camino, non c’erano mobili, non c’era niente: oltre alle ragnatele e alla polvere, i quattro uomini là dentro erano gli unici elementi che non fossero parte della struttura.
Alla luce gialla della candela il loro aspetto era ben strano. Quello che era sceso dal carro con tanta riluttanza era particolarmente impressionante. Era di mezza età, massiccio di corporatura, a osservarne la figura avresti detto che avesse la forza di un Golia; a osservarne i lineamenti, che l’avrebbe usata come un Golia.
Era senza barba, i capelli grigi rasati quasi a zero. La bassa fronte era solcata da rughe che sul naso diventavano verticali. Le folte sopracciglia si salvavano dal congiungersi solo per un guizzo verso l’alto, in corrispondenza di quello che altrimenti sarebbe stato il loro punto di contatto. Sotto queste, profondamente infossati, brillavano al fioco chiarore due occhi di colore indefinito, ma sicuramente troppo piccoli. Nella loro espressione c’era qualcosa di torvo, e l’insieme non era migliorato dalla bocca crudele e dalla mascella prominente. Ma tutto ciò che di sinistro era nel volto dell’uomo pareva accentuato da un pallore innaturale: sembrava completamente esangue.
L’aspetto degli altri invece era piuttosto comune. Erano tutti più giovani dell’uomo descritto, e tra lui e il più maturo degli altri, che se ne stava in disparte, non pareva correre buon sangue: evitavano di guardarsi.
- Signori – disse l’uomo che aveva candela e chiavi – credo sia tutto a posto. Siete pronto signor Rosser?
L’uomo che era in disparte s’inchinò con un sorriso.
- E voi signor Grossmith?
L’uomo massiccio s’inchinò con un’occhiata torva.
- Mettetevi a vostro agio.
I due si liberarono di cappelli, soprabiti, gilè e cravattini, e tutto venne gettato fuori dalla porta, nel corridoio. A questo punto l’uomo che aveva spinto Grossmith a scendere dal carro tirò fuori dalla tasca del soprabito due coltelli da caccia dall’aspetto micidiale.
- Sono proprio identici – disse, porgendone uno a ciascuno dei contendenti, perché ormai anche l’osservatore più distratto avrebbe compreso la natura di questo incontro. Doveva essere un duello a morte.
Ciascun duellante prese un coltello, lo esaminò alla luce della candela e provò la resistenza di lama e impugnatura. Le loro persone vennero perquisite a turno, ciascuna dal padrino dell’altro.
- Se vi sta bene signor Grossmith – disse l’uomo che teneva la candela – prenderete posto in quell’angolo.
Indicò l’angolo della stanza più lontano dalla porta, e Grossmith arretrò in quella direzione, mentre il padrino si separava da lui con una stretta di mano che non aveva nulla di cordiale.
Il signor Rosser prese a sua volta posto nell’angolo più vicino alla porta, e i due padrini fecero per uscire.
In quell’attimo la candela si spense all’improvviso, lasciando tutto nella più completa oscurità: forse fu una corrente d’aria dalla porta spalancata, in ogni caso l’effetto fu impressionante.
- Signori, non vi muovete finché non sentirete chiudersi la porta d’ingresso!
Seguì un rumore di passi, poi quello della porta interna che si chiudeva, infine il portone sbatté con un tonfo che scosse l’intero edificio.
Alcuni minuti più tardi un contadinello ritardatario incontrò un carro che correva all’impazzata verso la cittadina di Marshall.
Egli dichiarò che dietro le due figure alla guida ce n’era una terza, in piedi, che teneva le mani sulle spalle degli altri due. Il terzo, a differenza degli altri due, era vestito di bianco e senza dubbio era montato sul carro mentre questo si lasciava alle spalle la casa infestata.

2. Gli eventi che avevano portato a questo “duello nella notte” erano piuttosto semplici. Una sera tre ragazzi di Marshall sedevano appartati in un angolo sotto la veranda dell’albergo del paese, fumando e dibattendo quelle questioni che tre giovani istruiti di un villaggio del sud trovano naturalmente di loro interesse.
Si chiamavano King, Sancher e Rosser.
A poca distanza da loro, a portata d’orecchio, ma senza prender parte alla conversazione, sedeva una quarta persona. I tre non la conoscevano. Sapevano solo che quando l’uomo era arrivato quel pomeriggio con la diligenza aveva scritto sul registro il nome di Robert Grossmith. Non era stato visto parlare con nessuno, salvo l’impiegato dell’albergo.
- Non sopporto alcuna imperfezione fisica in una donna – disse King – sia naturale che acquisita. Sostengo che a qualsiasi difetto fisico ne corrisponda uno mentale o morale.
- Deduco quindi – disse Rosser gravemente – che una signora che difetti del vantaggio morale di un naso troverebbe estremamente arduo battersi per diventare madama King.
- Certo, se vuoi puoi metterla così – fu la risposta – ma parlando seriamente, una volta io lasciai una ragazza di grande bellezza perché venni casualmente a sapere che le era stato amputato un dito del piede. Puoi dirmi che il mio è stato un comportamento disumano, ma se avessi sposato quella ragazza sarei stato infelice e avrei reso lei altrettanto infelice.
- Mentre – disse Sancher ridendo allegramente – sposando un gentiluomo di più liberali vedute ella se la cavò con un taglio alla gola.
- Ah, sai di chi sto parlando. Sì, sposò Manton, ma non so nulla della sua ampiezza di vedute; non sono sicuro che le ha tagliato la gola perché ha scoperto che le mancava il dito medio del piede destro.
- Guardate quel tipo! – disse Rosser a voce bassa, con gli occhi fissi sullo sconosciuto.
Quel tipo naturalmente era intento ad ascoltare la conversazione.
- Accidenti che sfrontato! – mormorò King – che facciamo?
- E’ un sempliciotto – rispose Rosser, alzandosi – Signore – continuò rivolgendosi allo sconosciuto – credo sarebbe meglio se spostaste la vostra sedia all’altro capo della veranda. Evidentemente non siete avvezzo a trovarvi in presenza di gentiluomini.
L’uomo balzò in piedi e venne avanti a grandi passi stringendo i pugni, il volto livido di rabbia. Erano tutti in piedi. Sancher si frappose fra i belligeranti.
- Sei ingiusto e precipitoso – disse a Rosser – questo gentiluomo non ha fatto nulla per meritare un linguaggio simile.
Ma Rosser non intendeva ritirare una parola. Secondo i costumi del luogo e del tempo la discussione poteva concludersi solo in un modo.
- Chiedo la soddisfazione dovuta a un gentiluomo – disse lo sconosciuto, che si era un poco calmato – Non conosco nessuno in questa regione. Forse voi signore – disse rivolto a Sancher – vorrete essere tanto gentile da rappresentarmi in questa circostanza.
Sancher accettò la responsabilità, con una certa riluttanza, perché l’aspetto e i modi dell’uomo non erano assolutamente di suo gradimento.
King, che durante la discussione non aveva quasi mai staccato gli occhi dal volto dello sconosciuto e non aveva detto una parola, acconsentì con un cenno del capo ad agire per conto di Rosser, e, ritiratisi i contendenti, si arrivò ad organizzare un duello per la sera successiva. Le regole dell’incontro sono già note.
Il duello a coltello in una stanza buia era un tempo un aspetto tipico della vita nel Sudovest.
Vedremo quanto sottile fosse lo strato di “cavalleria” che copriva l’essenziale brutalità del codice secondo cui si svolgevano simili incontri.

3. D’estate, nello splendore del mezzodì, la vecchia casa Manton non era molto fedele alla sua reputazione. Era di questo mondo: i raggi del sole la blandivano caldi e premurosi, con chiara indifferenza per la sua cattiva fama; l’erba sullo spiazzo di fronte non sembrava infestarlo, ma ravvivarlo, e i fiori selvatici parevano coltivati.
Questo era l’aspetto con cui il luogo si presentò allo sceriffo Adams e ad altri due uomini che erano venuti a vedere la casa da Marshall.
Uno di questi era il signor King, il vicesceriffo.; l’altro, di nome Brewer, era un fratello della defunta signora Manton.
Per una legge dello Stato, relativa alle proprietà che da un certo tempo fossero state abbandonate da un intestatario di cui non potesse essere accertata la residenza, lo sceriffo era custode legale della fattoria Manton. La sua presente visita avveniva a seguito di un’ingiunzione di un tribunale presso cui il signor Brewer aveva intentato causa per entrare in possesso della proprietà come erede della sorella uccisa. Per pura coincidenza la visita venne effettuata il giorno dopo quella notte in cui lo sceriffo King aveva aperto la casa per altro e ben differente scopo. La sua presenza attuale non era volontaria: gli era stato ordinato di accompagnare il suo superiore.
Aprendo con noncuranza il portone, lo sceriffo fu stupito nel vedere, sul pavimento del corridoio, un mucchio disordinato di indumenti. All’esame si rivelarono due cappelli e lo stesso numero di soprabiti, gilè e cravattini. Con un nuovo e vivo interesse per quel che faceva, lo sceriffo spalancò la porta sulla destra e i tre entrarono.
La stanza in apparenza era vuota.. no: mentre i loro occhi si abituavano alla penombra si vide qualcosa nell’angolo più lontano. Era una sagoma umana, un uomo rannicchiato nell’angolo.
L’uomo era piegato su un ginocchio, la schiena nell’angolo della parete, le spalle sollevate fino alle orecchie, le mani alzate con i palmi in fuori; il viso rivolto verso l’alto, sul collo incassato, aveva un’espressione d’indescrivibile terrore, la bocca mezza aperta, gli occhi sgranati. Era morto stecchito.
A eccezione di un coltello da caccia, che evidentemente gli era caduto di mano, nella stanza non c’erano altri oggetti.
Nello spesso strato di polvere sul pavimento c’erano impronte confuse.
Lo sceriffo agguantò una delle braccia, rimaste alzate: era rigida come ferro.
Brewer, pallido per l’emozione, scrutò con attenzione quei lineamenti distorti. – Buon Dio! – gridò – questo è Manton!
- Hai ragione – disse King, sforzandosi di mantenere la calma – io conoscevo Manton. Allora aveva barba e i capelli lunghi, ma è lui.
Avrebbe potuto aggiungere: “L’ho riconosciuto quando ha sfidato Rosser. Lo dissi a Rosser e Sancher, prima che noi tre gli facessimo questo scherzo. Quando Rosser lasciò questa stanza buia subito dopo di noi nella furia dimenticò i vestiti, e ce ne andammo sul carro e lui era in maniche di camicia.. per tutto il tempo abbiamo saputo con chi avevamo a che fare, Manton, assassino e vigliacco!”.
Ma il signor King non disse nulla di tutto questo.
Si stava sforzando come poteva di far luce sul mistero di quella morte.
Che Manton- Grossmith non si fosse spostato mai dall’angolo dove era stato piazzato; che la sua non era una posizione né di attacco né di difesa; che l’arma gli era caduta; che era evidente che fosse morto di puro terrore, per qualcosa che aveva visto: queste erano cose che la mente confusa del signor King non poteva comprendere nella loro giusta luce.
Mentre brancolava nelle tenebre della ragione, gli occhi del signor King, caddero su qualcosa che in quel posto, alla luce del giorno, e in compagnia di vivi, lo riempì di terrore.
Nella polvere annosa sul pavimento, partendo dalla porta dalla quale erano entrati, e tagliando la stanza fino a un metro di distanza dal cadavere rannicchiato di Manton, correvano tre file di impronte parallele: tracce lievi ma definite di piedi scalzi, quelle esterne di bambini piccoli, quelle interne di donna. Al punto in cui terminavano non tornavano indietro; andavano tutte nella medesima direzione.
Brewer, che le aveva osservate nello stesso momento, era in atteggiamento di rapita attenzione, terribilmente pallido.
- Guardate! – gridò indicando con entrambe le mani l’impronta del piede destro della donna, nel punto in cui quella s’era apparentemente fermata – manca il dito medio… Era Gertrude!
Gertrude era la defunta signora Manton, sorella del signor Brewer, assassinata dal marito dieci anni prima.

The middle toe of the right foot, 1890 (Il dito medio del piede destro). Traduttore: Silvia Fanfani.
Dalla raccolta di racconti Can Such Things Be? (Possono accadere simili cose?), di Ambrose Bierce.

La mia ‘presentazione’ del racconto.
Difficile scegliere un racconto, fra le decine e decine di Bierce, da postare in un blog. Ce ne sono di brevissimi, ma i più significativi ed emblematici sono quelli un po’ più lunghi. Vero è che essendo Bierce un talentuoso, inveterato e cinico giornalista, passato tardi alla letteratura, egli è capace di condensare un racconto fulminante anche in due pagine.
In questo racconto è presente una caratteristica stilistica usata spesso da Bierce, e che era estremamente ‘moderna’ per la sua epoca, e d’effetto anche oggi (basti pensare al taglio narrativo di alcuni film moderni): si inizia col racconto di un fatto; il racconto è interrotto per narrare l’antefatto; infine c’è l’epilogo con l’illuminazione finale.
Questo schema, in questo racconto, mette in risalto la “quadratura”, la chiusura di una storia circolare, iniziata dieci anni prima (lo si accenna all’inizio), con l’assassinio di una donna e dei suoi figli da parte del marito e padre, poi fuggito e rimasto impunito.
Ma i morti di Ambrose Bierce talvolta si vendicano.
E “Il dito medio del piede destro” è una ghost story, ma anche una storia di vendetta.
La morte è sempre nei racconti di Bierce, e raramente è una morte non violenta.
Misantropo, moralista sardonico, acutissimo osservatore della società americana, segnato per sempre dall’esperienza feroce della Guerra Civile, Bierce, il cinico, ha verso i morti dei suoi racconti uno sguardo pietoso, parteggia per loro, per così dire.
Da notare, nello specifico racconto, che la sua ironia beffarda non risparmia nemmeno i suoi colleghi giornalisti: nelle frecciate qua e là ai redattori di un fantomatico giornale locale, l’ “Advance”.
E, ancora, grazie al grande realismo di Bierce, apprendiamo spaccati della vita quotidiana dell’epoca e società in cui è vissuto: superstizione, ignoranza e barbarie come caratteristiche ‘normali’ nelle zone rurali (da cui proveniva, di famiglia poverissima); usanze selvagge come il duello a coltello in una stanza buia, descritto nella prima metà del racconto; i delitti spesso impuniti, quasi sempre a danno dei deboli, e i colpevoli che si dileguano nel nulla… Non c’è da stupirsi che Bierce decida tanto spesso di far intervenire un altro tipo di Giustizia, laddove quella terrena non c’è.

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