Magazine Diario personale

Incipit traumatico di un romanzo che non scriverò mai

Da Lupussinefabula

La cosa che maggiormente lo preoccupava, era il fatto di non sapersi più appassionare.

C’erano stati tempi in cui un accenno a qualcosa lo avrebbe fatto volteggiare a mezzo metro dal pavimento; invece ora era calma piatta, come se un rullo compressore fosse passato a premere su di lui uno strato impermeabilmente nero di catrame; di asfalto. Così, coprendo come se niente fosse un mosaico meraviglioso e preziosissimo. Così, senza che nessuno protestasse, nemmeno lui.

Certo la bellezza si trovata ancora in fondo al suo cuore, ma non riusciva più a uscire.

Quando gli venivano in mente questi pensieri, si accorgeva anche di un’altra cosa: era troppo tempo che non si sfogava. Capitava, alcuni anni addietro, che in certi giorni piovosi o nuvolosi, tutto il suo male fluisse fuori come un liquido amaro fatto sgorgare dalle vene; e questo gli faceva bene, lo scaricava, gli toglieva di dosso tutte le tensioni accumulate e lo preparava per una nuova ripartenza.

Ma erano anni che non succedeva più.

Immensi anni.

Si chiedeva se con il rintocco dei trenta, avesse perso la sua malinconica poeticità, così come la perdono gli adolescenti quando entrano nella fase adulta: smettono di interrogarsi sul senso delle cose e prendono ad agire. Sbocciano.

Ma a trent’anni poteva essere persino ridicolo trovarsi a pensare di essere sul punto di uscire dalla fase adolescenziale; a trent’anni uno è ormai adulto.

O no?

La gente gli aveva sempre detto che era sempre stato più maturo degli altri, ma lui sapeva bene dentro di sè di essere più bambino dei suoi coetanei; il problema era che riusciva a mascherare bene questo suo essere infantile, e gli altri non se ne accorgevano. Dentro sé sapeva che forse proprio per questo, avendo ormai 32 anni, si poteva dire appena uscito dal medioevo adolescenziale.

Vi era definitivamente uscito la prima volta in cui si era accorto che da mesi non si rinchiudeva da solo in stanza a piangere.

E non aveva festeggiato, perché non sapeva se c’era da festeggiare.



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