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IO NON CI TENGO NE' CI TESI MAI... ETTORE PETROLINI di marcello de santis

Creato il 17 agosto 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
IO NON CI TENGO NE' CI TESI MAI... ETTORE PETROLINI di marcello de santis

Marcello De Santis, sempre puntuale e preciso nei dettagli e nelle notizie, con il suo saggio, questo mese, ci racconta la storia del varietà e del suo capostipite Ettore Petrolini, considerato il principe dell'avanspettacolo... (Franca Poli)

Partiamo dalla fine.
L'attore, per una grave forma di angina pectoris, è costretto, a malincuore, a lasciare il teatro. E' l'anno 1935, alla fine di giugno; Petrolini muore a soli 52 anni, nel pieno della sua maturità artistica e del suo successo. Stava male da tempo; i medici venivano spesso al suo capezzale e visitarlo. Un giorno, quello che lo aveva appena visitato gli disse che lo trovava senz'altro meglio; e Petrolini, col suo sorriso eternamente canzonatorio, fece forse la sua ultima battuta: meno male, dotto', così moro guarito. E forse ci sarebbe stata bene anche una delle sue frasi celebri, che pronunciava con nonchalance sui palcoscenici di tutto il mondo:
L'uomo e' un pacco postale che la levatrice spedisce al becchino.

Poi però venne il prete, stava proprio male, sarebbe morto di lì a poco. Venne dunque il prete per dargli l'estrema unzione con l'olio santo in mano; Petrolini lo vide entrare ed avvicinarsi al suo letto; fece l'ultima battuta della sua vita:adesso sì che sono fritto!
Uomo di teatro, ma di quel teatro diciamo così di seconda categoria, meglio definito come teatro di varietà, o meglio teatro di avanspettacolo che dal varierà era appunto derivato. Ma perché questo termine: avanspettacolo? Ce lo siamo mai chiesto?
E sì che tutti quelli della mia età sono stati spettatori di queste rappresentazioni allegre e spensierate sui palcoscenici dei teatri anche dei piccoli paesi, in quegli anni dell'immediato dopoguerra, dove si faticava a riemergere e a ricostruire - oltre che sulle macerie delle bombe - anche sulle anime dei padri e delle madri vittime della guerra; spettacoli in cui un capo-compagnia detto capocomico allestiva serate teatrali con balletti di procaci (e non sempre, talvolta vere e proprie "buzzicone" - grassone - come si dice a Roma) ragazze appena appena scollacciate, schetch o scenette messe nelle mani o nella faccia di un qualche comico agli inizi (o alla fine) della carriera, talvolta aiutato dalla famosa "spalla", qualche cantante ancora dilettante alla ricerca di una gloria che per qualcuno sarebbe arrivata (ma per tanti no); e con qualche ragazza acerba pure se ben tornita di cui qualcuna sarebbe poi diventata attrice e (qualcuna) anche grande attrice. Insieme ad essi una decina di orchestrali più o meno all'altezza della situazione, ma che per tirare avanti avrebbero venduto l'anima al diavolo; del resto i capocomici non erano sempre esigentissimi; e debbo dire, neppure gli spettatori lo erano.
E i giovanotti accorrevano in massa, per vedere da vicino, talvolta con le braccia appoggiate sulle tavole della passerella (i più fortunati), le mani allungate a cercare di toccare almeno i piedi delle ballerine poco-vestite. Ma c'erano anche i "signori bene" che deploravano i costumi scollacciati delle attricette di varietà.

Nella mia città, allora ancora paese, che le bombe avevano devastato in maniera atroce, c'erano tre sale cinematografiche.
Il cine centrale, ricavato da un locale che presentava un ambiente molto molto alto, in cui a una platea circolare facevano corona due gallerie; e quante volte da ragazzini ci siamo andati, e tutti di corsa a cercare un posto qualsiasi nella seconda galleria (che era una novità un po' per tutti, anche per i grandi; ma in effetti scomodissima ché si vedeva male, molto male.)
Sapete, c'era allora un sacerdote cui noi - bambini - abbiamo voluto tutti bene, si chiamava don Amato, che ci chiamava a messa la domenica, alle nove e mezza, la messa dei ragazzini, e poi con cinque lire a testa ci portava a questo "cine centrale", così si chiamava (ricordo sempre l'inaugurazione con una fila per quattro lunga tutto il corso, con un film con Tyron Power: Il canale di Suez): don Amato ci portava a vedere Stallio e Ollio, Zorro, oppure Tarzan o Gianni e Pinotto, oppure gli indiani con i cow boy.
Poi c'era il Cinema Giuseppetti, sulla strada che portava a casa mia.
E ultimo, un cinema all'aperto, l'Arena Italia, gestita dal papà di un mio caro compagno di scuola di quando andavamo alle medie e poi al liceo; poi diventato uno dei pochi amici che mi sono rimasti, dopo più di cinquant'anni); l'unico che portava a Tivoli l'avanspettacolo; d'estate, con 25 lire, cinema e varietà.
Due spettacoli al giorno. Mio padre quando poteva ci portava tutta la famiglia, all' Arena Italia, d'estate.
L'abbinamento cinema-varietà derivava direttamente da una abitudine degli anni 20/30 del 1900, quando, con l'affermarsi del cinema nacquero come funghi le sale cinematografiche più o meno grandi (quelle piccole e piccolissime venivano chiamate pidocchietti, ricordate? e qui poi col tempo passavano solo film in terza e quarta visione); gli impresari e i titolari di dette sale pensarono bene di presentare degli spettacoli di teatro, l'avanspettacolo, appunto, tra una proiezione e l'altra, per attirare più spettatori possibile.

Non vidi mai recitare Ettore Petrolini, ché il grande comico romano, quando io vidi la luce nel 1939, ci aveva lasciato già da tre anni. Vidi però altri grandi attori di palcoscenico cosiddetto leggero; e con me bambino, sette otto anni, i miei genitori e una platea sempre piena, quando la gente non stava anche in piedi, e sì che l'Arena Italia aveva una capienza eccezionale con la platea di circa tre/quattrocento posti; e una gradinate a semicerchio amplissima, molto più capiente della platea, che saliva fin lassù... La domenica poi c'era costantemente il tutto esaurito nei due spettacoli, uno pomeridiano (per pomeridiano si intendeva il primo, che cominciava per questione di luce (essendo all'aperto), alle sei e mezza o giù di lì); e l'altro serale.
Vidi senz'altro i fratelli De Vico; e Derio Pino e Grazia Cori; Vici de Rol; Nino Lembo; forse Trottolino (al secolo Vico D'Ambrosio)...
ei cantanti non ricordo molto, assistetti anni dopo a esibizioni di Claudio Villa, Giorgio Consolini e Luciano Tajoli e altri; mi sembra venissero con le ultime compagnie di avanspettacolo. Più tardi negli anni questo genere di spettacolo vide protagonisti personaggi che divennero poi grandi grandissimi attori, parliamo di Macario, Nino Taranto, Renato Rascel il piccoletto, Walter Chiari, Aldo Fabrizi e Totò, e tanti altri.Ma vennero dopo; prima di loro, il principe dell'avanspettacolo era Ettore Petrolini, considerato da molti il caposcuola della generazione dei comici.

Vennero poi: la rivista, più articolata e più curata anche nei particolari, più elegante, per dire così; e quindi la commedia musicale; da lì al teatro di prosa, e ancora al cinema il passo fu breve; e tutte queste ultime forme di spettacolo debbono qualcosa a quella primitiva forma, e a chi per primo lo ha preso e condotto per mano: Ettore Petrolini.

Nacque a Roma da una famiglia popolare, suo padre faceva il fabbro; suo nonnoSalvatore il falegname, con la bottega in Via Giulia, un quartiere al centro di quella Roma che ospitava solo popolino, non certo nobili e ricchi. Proprio nella bottega del nonno Ettore cominciò a improvvisare le sue scenette comiche.
Ettore se ne andava in giro come tutti i ragazzi ed era attirato dai teatrini del tempo, che erano allestiti con tavole sistemate alla bell'e meglio su assi di sostegno dentro dei baracconi semoventi; e qui fu subito preso dalla voglia di fare teatro, di calcare quelle tavole sconnesse e pure tanto desiderate; palchi improvvisati con rappresentazioni improvvisate, farse e scenette a braccio, senza una trama precisa; lasciata all'estro di chi si esibiva. Salì sul palco e si provò. Andò bene, anche perché la sua mimica facciale era speciale. Aveva trovato la sua strada; da allora prese anche a scrivere le cose che doveva recitare, fu così che divenne oltre che attore anche autore dei testi, scrittore e sceneggiatore delle sue cose.

Mussolini gli volle dare un tangibile riconoscimento per la sua arte popolare e gli fece conferire una medaglia. Lui se la spillò al petto e facendo il verso alla celebre frase del dittatore (me ne frego!) esclamò: e io me ne fregio!
Non era un ragazzo quieto e tranquillo, tutt'altro, il suo carattere ribelle costrinse la madre a ritirarlo dalla scuola; la strada lo portò a farsi due anni di riformatorio, aveva 13 anni, e quando uscì, a 15, prese il coraggio (che non gli mancava di certo) a quattro mani e se ne andò di casa, deciso a farsi una vita sul palcoscenico.
Ormai giovane com'era stava entrando nel giro e cominciava a conoscere. Fu così che si presentò a un agente teatrale, Giulio Fabi, ... che mi giudicò uno scemo e mi disse: - Portami quattro scudi... e ti mando subito nella compagnia di Angelo Tabanelli (detto il Panzone) che agisce a Campagnano (presso Roma). Mamma me ne vado a fare teatro, mi servono quattro scudi. La madre gli dette i soldi e un bacio in fronte. Partì, raggiunse in diligenza il paese nell'alto Lazio e raggiunse la compagnia. Fece il suo debutto con un incidente, mise un piede su una tavola traballante e cadde e si lussò un piede. Ma la gente rise a crepapelle e chiese il bis. Mi accorsi che ero veramente votato all'arte comica...

(dal suo libro Modestia a parte, uscito nel 1932).

Si era esibito già sui modesti palcoscenici dei teatrini di Trastevere tutti locali di terz'ordine; faceva il macchiettista, e strappava applausi; quindi acquisì una certa esperienza; era l'anno 1900. La gioia più grande in queste sue prime esibizioni l'ebbe al Gambrinus (usava un nome d'arte Ettore Loris); era questo una birreria di Roma che accoglieva le compagnie di poco più che guitti. Si esibì al fianco della stella della compagnia, la chanteuse Diana Paoli, ebbe un grande successo, oscurando persino l'attrice. Il direttore del locale, il signor Stern, lo insignì di una medaglia. Ricorda Petrolini:
... una medaglietta con su scritto:«La direzione della birreria Gambrinus a Petrolini». Sì, Petrolini. Perché al Gambrinus volli debuttare con il mio vero nome. Gongolavo dalla gioia. E in casa, presso la mia famiglia, facevo compassione a tutti!

La sua vita è stata piena fin dall'inizio della carriera; raccontarla tutta richiederebbe spazio e tempo; non è questo il nostro scopo, il saggio deve essere breve e dunque ci atterremo al nostro scopo, pur evidenziando le cose essenziali e importanti. Gli inizi furono avventurosi anzichenò, racconta infatti nel suo libro Un po' per celia, un po' per non morire che vide la luce nel 1936 (nello stesso anno sarebbe morto): ... in fondo a quei bottegoni c'era sempre un palcoscenico arrangiato alla meglio: poche tavole, molti chiodi, e quattro quinte, fondale di carta, con quasi sempre dipinto il Vesuvio (in eruzione, naturalmente), ed ecco l'elenco artistico: prima esce lei, poi esce lui, poi escono tutti e due insieme, ricomincia lei... e così via di seguito fino a mezzanotte: il tutto intercalato da uno "sminfarolo" al pianoforte. Simpatico questo attributo del pianista: sminfarolo, che nel dialetto romanesco di allora stava a indicare uno strimpellatore di un qualsivoglia strumento, che suona ad orecchio.
Grande Petrolini! Che nel 1907, a 23 anni va in America Latina, dove raggiunge la fama che lo seguirà al ritorno a Roma. Lavora ancora con la compagna Ines Colapietro che aveva conosciuto quattro anni prima a Roma e che diventerà anche sua compagna di vita.

La sua fama vola e il suo nome comincia a essere noto, inventa diversi personaggi che colloca in sketch che prendono in giro anche gente che non poteva essere toccata dalla sua satira pungente. Nasce il personaggio di Gastone dove ridicolizza un viveur che si spandeva in Italia grazie alla verve e alla estetica troppo carica del vate Gabriele D'Annunzio; nascono i salamini, nasce Nerone (nel 1918) satira pesante che sotto le spoglie degli antichi romani, in effetti aveva come bersaglio, nemmeno troppo velato, il fascismo di Mussolini.
Intanto anche il cinema si era accorto di questo personaggio la cui mimica inconfondibile lo aveva levato ai punti più alti del teatro. Girò così diversi film, negli anni venti, muti per l'occasione, dove mise in mostra tutto il suo modo di parlare senza parlare grazie alla grande arte della mimica facciale e corporale; e grazie anche alle mille espressioni che era capace di tirare fuori e plasmare colla sua faccia.
Ma la sua vita era il teatro: Ritornò al cinema dieci anni dopo, con altri due film, stavolta col sonoro, uno dei due era quel Nerone che aveva portato fino ad allora sulle scene.

Intanto la sua attività non era solo recitativa, ma scriveva anche le opere che rappresentava (Chicchignola, per il teatro e il cinema) e tutta una serie di macchiette che va da Nerone, come detto, a Gastone, da Fortunello a Giggi er Bullo. E poi cominciava a cantare quella bislacca canzone, dopo essersi presentato alla sua maniera come un signore chic, un po' decadente e un po' demodé (la commedia fu presentata a Bologna per la prima volta nell'anno 1928).
Gastone, artista cinematografico, fotogenico al cento per cento, numero di centro per "varieté" "danseur" "diseur", frequentatore dei "Bal-tabarins", conquistatore di donne a getto continuo, uomo incredibilmente stanco di tutto, uomo che emana fascino, uomo rovinato dalla guerra.

Gastone, son del cinema il padrone,
Gastone / Gastone.
Gastone, ho le donne a profusione / e ne faccio collezione,
Gastone / Gastone.

Sono sempre ricercato / per le filme più bislacche,
perché sono ben calzato / perché porto bene il fracche.
Con la riga al pantalone…
Ga
stone, / Gastone.

E andava avanti così per due atti con battute e frasi celebri.

... E' una mia trovata e me la scimmiottano tutti i comiciattoli del varietà
... Quante invenzioni ho fatto io!
Discendo da una schiatta di inventori, di creatori, di deformatori…

... Mio padre, per esempio, ha inventato la macchina per tagliare il burro
...Mia madre? Anche lei una grande inventrice: anzitutto ha inventato me.
Poi aveva il senso dell'economia sviluppato fino alla genialità: figuratevi, io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplicemente Tone… per risparmiare il gas…
... A me, m'ha rovinato la guerra, se non c'era la guerra a quest'ora stavo a Londra.
Dovevo andare a Londra a musicare l'orario delle ferrovie.
Perché io sono molto ricercato… ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricer
cato dalla questura…

... Che ve ne pare? Che bel talento.
Ma io non ci tengo né ci tesi ma
i.

Petrolini è un artista a tutto tondo, ed è molto amato dal suo pubblico; è tanto popolare che persino il regime fascista in qualche modo teme di rimproverargli qualcosa, per le sue parodie e sui suoi sberleffi nemmeno troppo velati sul regime. E' il periodo d'oro di Marinetti e dei Futuristi.

L'attore sbeffeggia anche loro, e fa il verso ai loro versi maltusiani, (versi che si rifacevano alle teorie di Thomas Malthus, economista inglese, teorico del coitus interruptus per la limitazione delle nascite; avevano dunque la caratteristica di troncare l'ultima parola dell'ultimo verso).
Per tornare un attimo alla presa in giro del regime fascista, ricordiamo questo:

Parlamento è quella cosa
che ci vanno tutti quanti,
i più bischeri e birbanti
vanno pure al mi
nister.

In uno di questi, l'attore definisce se stesso così: ricordate?

Petrolini è quella cosa
che ti burla in ton garbato,
poi ti dice: ti à piaciato?
se ti offendi se n
e freg.

Quando sul palcoscenico recitava le sua filastrocche senza senso, piene zeppe di rime, assonanze e quant'altro, la gente andava in visibilio, e scrosciavano applausi a scena aperta. Ecco un'altra definizione del suo personaggio:

Sono un tipo estetico, asmatico, sintetico, simpatico, cosmetico.
Amo la Bibbia, la Libbia, la fibbia delle scarpine delle donnin
e
carine, cretine.
Sono disinvolto, raccolto, assolto "per inesistenza del reato".
Ho una spiccata passione per il Polo Nord, il Nabuccodonosor,
i lacci delle scarpe, l'osso buco e la carta moschicida.
Sono omerico, isterico, generico, chim
erico.

Grande Petrolini.
Era solito ricordare le sue uscite sul palcoscenico, davanti a un pubblico che
magnava le fusaje (i lupini) e poi tirava le cocce (le bucce) sur parcoscenico al lume de certe lampene (lampade) ch'er fumo spargeva da pertutto un odore da bottega de friggitore...
A cinquantadue anni se ne andava.

Voglio chiudere questo breve saggio con un suo esilarante poemetto dal titolo La canzone delle cose morte, poco conosciuto, almeno per chi non è addentro alle sue cose, che ci mostra un Petrolini anche poeta di vaglia. E' una chicca, un poco lunga, ma scorre da sé e tutta d'un fiato; fantastica!

"Signore e signori, so che molti supercritici dopo essersi divertiti a sentirmi, vanno dicendo: "Sì, ma in fondo dice un mondo di stupidaggini." Ebbene, signori, ora basta. Vi dirò delle cose profonde filosofiche, scientifiche, dense di pensiero, di dottrina e di cultura."

Bello è d'intorno il rapido cadere
delle morte energie, che non han fine.
Bello è nel cuore il lento soggiacere
delle passioni, mentre imbianca il crine.

E qualcosa s'en va, senza che mai
faccia ritorno al vivere fatale.
Volgiti indietro, e la miseria udrai,
la miseria che piange, in sulle scale.

Tanto gentile e tant'onesta pare
la donna mia, mentr'ella altrui saluta,
che al vederla così bene vestuta,
quindici lire le si posson dare.

Va per i cieli denzi un nembo scuro
ed è l'anima mia che le va dietro.
O dolcezza di un tempo meno duro,
O durezza di più di mezzo metro.

Su per le calli, torturando i calli,
le valli, gli avalli e le convalli
rammento te, mazza di S.Giuseppe,
quando Letricia mia, quando vedrai
Pape Satan, Pape Satan Aleppe.

Volgiti indietro, la miseria udrai,
la miseria che piange sulle scale.
(E' commovente eh?)
Rotto è questo mio cuore.

E' rotto e frale,
è rotto, è rotto; è rotto, è rotto, è rotto
ed io me ne strapongo sopra e sotto.
A stracci, a pezzi, a morsi, a cenci, a ciocchi,
a minuzzoli, a pugni, a mani, a sacchi.

A falde, a spoglie, a spolverini, a ciocche,
a spicchi, a foglie, a picchi, a pocchie, a pacchie,
a quadri, a cubi, a tondi, a perle, a fiori.
Le donne, i cavalier, l'armi e gli amori.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
arma la poppa e salpa verso il mondo
là dove chiederai: è lei, è lei quel tal signore
che sedeva accanto a me sul tranvai?

E quest'amore, per cui piangete o donne
e lacrimate forte
che il Re di Creta
è condannato a morte.

Presso la culla
in dolce atto d'amore.
A l'ombra dei cipressi
e dentro l'urne.

Se mi scappa, chi mai l'afferrerà?
Amor che null'amato, amar perdona
se tu le mani ormai ti sei lavate
ti consegno il mio cuor dentro una biscia

floscia, s'inguscia, nella grascia, ambascia,
all'uscio dell'angoscia cresce ed esce,
ripasce e poscia pasce e pesce piglia
quella biscia che in cuor freddo bisciò.

Tutto di verde mi voglio vestire.
Tore è partuto e sola ti ha lasciato.
Quando Rosina scende giù dal monte.
A marechiaro ci sta una finestra

dove ognuno ci fa una fermatina, e se ne va
e se ne va per la via vagabonda
allegra o moribonda, mesta o cogitabonda
o bionda, o bella bionda
sei come l'onda.

Ancora sul letto di morte ebbe a dire, atteggiando la sua faccia a uno che per l'occasione è molto dispiaciuto (e gli riusciva benissimo):
Che vergogna morire a cinquant'anni!"

marcello de santis


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