Magazine Diario personale

Ipertesto, Serendipity e i Tarocchi di Calvino

Da Bloody Ivy

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“La fine dell’era della scrittura non significa che non si scriverà e non si leggerà più, né che si cesserà di produrre libri e riviste. La fine dell’era dell’oralità e l’avvento della scrittura hanno forse voluto dire che l’uomo ha smesso di parlre e si è messo solo a scrivere?” (Antonio Caronia – Archeologie del virtuale; Teorie, scritture, schermi)

La mente dell’uomo è oramai da secoli alfabetizzata e, la parola non è più soltanto un suono, ma rimanda ad un segno ben conosciuto, cioè ad un qualcosa che viene percepito visivamente. Il filo logico del discorso risulta meglio organizzato in una civiltà scritta che non in una orale. Il pensiero e il discorso “lineari e non ripetitivi, o analitici, sono creazioni artificiali, strutturate dalla tecnologia della scrittura” (Walter J. Ong Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola).

La civiltà orale è basata sulla memoria (l’aedo, der Minnesänger, il Trovatore, il Cantastorie…), da esercitare in continuazione perché l’espressione orale scompare appena è stata detta. Il pensiero è, quindi, più lento, giacché l’energia mentale deve impegnarsi ad ascoltare ma soprattutto a ricordare i discorsi già fatti. La scrittura, in questo senso, ha trasformato la mente dell’uomo più di qualsiasi altra scoperta umana.Chi ha interiorizzato la scrittura, non solo scrive, ma parla anche in modo diverso, organizza cioè, persino la propria espressione orale in ragionamenti e forme verbali che non conoscerebbe se non sapesse scrivere”.

Persino la filosofia può nascere solo dopo che l’uomo ha interiorizzato la scrittura. Se esiste uno scritto, recuperabile tornando indietro nel testo, posso spingere la mente ad andare avanti, con pensieri mai avuti prima; non serve si affatichi nel ricordare il già detto perché è leggibile ogni volta serve. La scrittura, da questo punto di vista, libera la mente; sebbene poi il modo di interpretare l’alfabeto si comporti come uno specchio della mente che riflette le nostre stesse strategie cognitive.

La scrittura si diffuse fra la metà del VIII secolo e la metà del VII secolo a.C. La prima cosa che si pensò di mettere per iscritto con la scrittura alfabetica furono i due grandi poemi di Omero: l’Iliade e l’Odissea. Per salvaguardarli dall’arbitrio degli aedi sempre tentati a ricamarci sopra nuovi fatterelli di testa loro. L’avanzare della civiltà del testo scritto fu comunque graduale e lentissima. La prosa seppur scritta, per secoli conservò un carattere orale. I celeberrimi dialoghi di Platone, ma anche le opere medievali e fino al Rinascimento usano la forma dialogica per dare agli insegnamenti scritti qualcosa del loro originale carattere orale. Le opere filosofiche soprattutto parevano trascrizioni di performance orali; con dialoghi strutturati come dispute fra lo scrittore e immaginari contestatori. L’occhio, quindi, con molta calma e tanta pazienza acquisì un’importanza sempre maggiore rispetto all’orecchio, ma alla fine ebbe il sopravvento e la scrittura fece valere le sue leggi del testo anche al pensiero. L’alfabeto determina persino il modo in cui rappresentiamo il tempo e lo spazio nella nostra mente. La lettura propone alla mente la priorità del riconoscere il più velocemente possibile la giusta sequenza delle lettere. Questo processo implica l’utilizzo di zone particolari del cervello, diverse da quelle che vengono stimolate per riconoscere altri tipi di strutture.

Edward Sapir (linguista etnologo, 1884 Lauenburg – 1930 New Haven, Connecticut. Nel suo “Language”, 1921 tratta delle fluttuazioni nell’uso delle parole che permettono il mutamento attraverso il tempo e di una corrente profonda e lenta nel linguaggio che Sapirr chiama “drift”, deriva) spiega come il linguaggio non solo ci permetta di comunicare con gli altri e con noi stessi, ma anche di come forgi l’intera nostra visione del mondo. Ossia di come le parole non descrivano obbiettivamente la realtà, ma la interpretino, secondo la loro struttura logica e grammaticale, facendo vedere delle cose e velandone altre. Vediamo il mondo come il nostro linguaggio ce lo fa vedere. E, il pensiero analitico nasce appunto grazie all’architettura del testo scritto. La cultura aristotelica che spiega il mondo tramite una sequenza di cause ed effetti, in fondo si basa su una visione sequenziale degli accadimenti.

Gli schemi grammaticali e logici di un testo scritto, in realtà incanalano le forme del pensiero, forgiano la forma mentis. Detto in altro modo, il discorso scritto condiziona intimamente pensieri, che il discorso soltanto orale non avrebbe mai potuto far fiorire. E anche il tempo lineare è condizionato dal modo di intendere l’alfabeto.

Oggigiorno quello che più di qualche intellettuale teme dall’avvento dei computer e di Internet è di dover recitare un Requiem per la scrittura. Scrittura intesa, appunto come struttura che ha modificato (migliorandolo) il modo di pensare e di percepire il mondo. Il nuovo tipo di scrittura apparso, l’ipertesto, espressione della cosiddetta multimedialità, suscita la seguente domanda: Continueremo a pensare secondo l’idea sequenziale, lineare, strutturata del sapere organizzato del testo o avremo un altro modello, un’altra idea della conoscenza, un’altra pratica del rapporto fra sapere e vita?

I link dell’ipertesto però, a ben guardare, non appaiono per la prima volta sulle pagine del World Wide Web. Ecco un esempio. Il castello dei destini incrociatiè un testo scritto da Italo Calvino con notevole intraprendenza nella ricerca di nuove forme comunicative, pubblicato nel 1973. Più che un testo, anzi, si tratta di un ipertesto, poiché non ha un vero inizio e si può modificare lungo la lettura il percorso, nonché la fine. Molteplici, quindi, i punti da scegliere per l’entrata e l’uscita dal testo. “Il castello dei destini incrociati” viene così ad essere un romanzo “rete” di link di tarocchi verticali e orizzontali. Il significato d’ogni carta dipende anche dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono. Un castello rustico e fuori mano, anzi in mezzo ad un fitto bosco, funge da rifugio, quasi fosse una locanda di passo, a molti ospiti, viaggiatori sorpresi dalla notte. L’atmosfera incantata toglie la favella e l’unico modo per comunicare fra i commensali si rivela essere un mazzo di carte, di quelli usati dalle zingare per predire il destino. Le carte affiancate a caso danno una storia, due storie, più storie, fino a formare il quadrato magico dei tarocchi. I racconti s’incrociano tra loro, un cruciverba fatto non di lettere ma di figure che raccontano, evocano immagini per ogni pezzettino della storia, in cui per più di ogni sequenza si può leggere nei due sensi.

George Paul Landow (tra i maggiori teorici dell’ipertestualità. Insegna English and Art History alla Brown University degli Stati Uniti. Ha precedentemente insegnato all’Università di Chicago, Columbia, e ad Oxford, al Brasenose College. E’ stato insignito di numerosi premi. Tra il 1985 ed il 1992 ha fatto parte alla Brown University, del gruppo che ha sviluppato Intermedia)spiega la scrittura in ambiente elettronico. Definisce l’ipertesto come qualsiasi forma di testualità – parole, immagini, suoni – che si presenti in blocchi o unità di lettura collegati da link. Come una forma di testo che permette al lettore di abbracciare o di percorrere una gran quantità di informazione in modi scelti dal lettore stesso, e, nel contempo, in modi previsti dall’autore. Per definire l’ipertesto con una o due frasi, dice: l’ipertesto è una forma di testo composta da blocchi di scrittura e immagini collegati da link, che permette una lettura multilineare: non una lettura non lineare o non sequenziale, ma una lettura multisequenziale“.

Un ipertesto, secondo Landow, è navigabile, interattivo e multimediale. Navigabile perché permette al lettore di scegliere la rotta di navigazione (i contenuti da cercare) secondo un suo preciso programma di studio e ricerca; interattivo, poiché si può saltabeccare da un documento all’altro per mezzo dei link; multimediale perché si possono ascoltare brani, ingrandire immagini, spedire ciò che si è trovato ad altre persone. L’ipertesto supera la limitatezza della pagina scritta e mette il pensiero al bivio di innumerevoli direzioni; apre la mente ad ogni sorta di mondi possibili, nel senso che si possono seguire e costruire differenti opinioni sulle cose.

I tarocchi di Calvino come antesignani blocchi di scrittura, lessie di Landow. “Mentre un commensale avanza la sua striscia un altro dall’altro estremo avanza in senso opposto, perché le storie raccontate da sinistra a destra o dal basso in alto possono pure essere lette da destra a sinistra o dall’alto in basso, e viceversa, tenendo conto che le stesse carte presentandosi in un diverso ordine spesso cambiano significato, e il medesimo tarocco serve nello stesso tempo a narratori che partono dai quattro punti cardinali” (Italo Calvino – Il castello dei destini incrociati). Italo Calvino ben prima dell’invenzione dei link dei siti Internet scardina il testo e lo trasforma in ipertesto.

La possibilità di fare link permette sia al lettore sia all’autore di imbattersi negli argomenti in ordine diverso. Citando un esempio di Landow: molte volte, ci sono tre modi per fare qualcosa, ma questi tre modi sono solo una questione di numerazione, non c’è un vero crescendo. “Tre” non è per forza più importante di “uno”. Il lettore di un ipertesto vedrà i link degli approfondimenti proposti dall’autore, ma può accettare di guardarne solo alcuni, tutti o nessuno. “L’ipertesto comporta perciò un ruolo più attivo del lettore che non soltanto sceglie i suoi percorsi di lettura, ma che ha anche l’opportunità di leggere da autore: egli può creare collegamenti, aggiungere testo al testo che sta leggendo” (G. P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura). Questo è proprio quello che Calvino prima dell’arrivo del w.w.w. cerca di fare scavalcando gli schemi della scrittura tradizionale, dove la pagina scritta può essere letta in una sola direzione e seguendo un filo lineare.

Nel quadrato magico dei tarocchi, il destino di ogni commensale è intrecciato a quello degli altri. La rete delle figure delle carte appoggiate sul tavolo della sala da pranzo del castello, permette un’interpretazione pluridirezionale, a zigzag ma anche lineare volendo. Ogni illustrazione rappresenta un pezzo di racconto (un’unità informativa, un nodo, una lessia) e da questo partono i collegamenti (link) che da un tarocco (blocco di scrittura) permettono di passare ad un altro, o a più altri, fra molteplici percorsi che portano a più diverse conclusioni. Il testo resta sempre aperto, mai delimitato e i suoi confini non sono né la prima né l’ultima pagina.

Le unità di lettura, lessie, acquistano vita propria ma ogni singola lessia continua ad avere legami forti o deboli con qualunque altra parte del testo da cui venga linkata. Con l’ipertesto si intrecciano fa loro testi anche di autori diversi (e non è detto che non siano figure, video, database, grafici o altro); l’effetto di ciò è indebolire il senso di unicità testuale.Possiamo partire alla ricerca di qualcosa e cliccando su un link, trovare per caso altre notizie che ci interessano e fermarci di più ad approfondire queste nuove. Questa è la Serendipity della Rete: la capacità di trovare qualcosa senza cercarla, di cogliere un’intuizione felice e casuale e trasformarla in base per la nostra ricerca, i nostri studi. E’ la capacità di cercare una cosa e di trovarne un’altra; la facoltà di captare un indizio, di cogliere al volo un’intuizione e sfruttarla, anche se non rientrava nei programmi iniziali. E’ l’opposto del lavoro e del progetto costruito rigidamente a tavolino. Con un libro non è facile incrociare la Serendipity, navigando in Rete l’incontro non è raro. (Serendip dal Sanscrito “Simhala dvipa”, si chiamava anticamente l’isola di Ceylon, oggi Sri Lanka. Da qui l’origine della parola Serendipity. Ma per quanto riguarda la filosofia che ne deriva, tutto nasce da una favola persiana del V secolo, che narra le avventure di tre principi, figli di Javer, il re-filosofo di Serendip. Re Javer aveva affidato la loro istruzione agli uomini più sapienti del reame. Per arricchire la loro cultura con l’esperienza e la conoscenza di altri popoli, i tre giovani partirono per un lungo viaggio in giro per il mondo. Cominciarono così le loro peripezie e le loro scoperte. “Scoperte” – e qui sta la parola chiave – intese come intuizioni dovute sì al caso, ma anche allo spirito acuto e alla capacità di osservazione dei tre principi. Queste qualità li porteranno a trovare sul loro cammino una serie di indizi che li salveranno in più di un’occasione. Tradotta in diverse lingue, la leggenda approda nelle mani dello scrittore inglese Sir Horace Walpole che, nel 1754, conia, per primo, il termine di Serendipity per indicare quella miscela di sagacia e di fortuna che permette di fare, senza intenzione, felici scoperte).

serendipity

Non si tratta di inseguire o dare la caccia a un’informazione particolare, ma di cercare, qua e là, senza avere idee preconcette. Il verbo to browse (“cercare a caso”, ma anche “dare uno sguardo”) è impiegato dagli americani per definire il singolare modo di procedere di chi naviga in un ipertesto. Per muoversi all’interno di un libro o di una biblioteca, si ha bisogno di alcune mediazioni e carte come l’indice, la tavola degli argomenti o lo schedario. Chi legge un giornale, invece, naviga direttamente a vista. I titoli grossi colpiscono l’occhio, e già questo permette di farsi un’idea, si procede spigolando qua e là alcune frasi, una foto, e poi, all’improvviso, può capitare che un articolo attiri la nostra attenzione come il miele le api… Fino a che punto l’interfaccia di un giornale o di una rivista sia perfezionata, ce ne rendiamo veramente conto solo quando cerchiamo di ritrovare la stessa facilità di sorvolo di fronte a uno schermo e una tastiera. Il giornale è tutto in open field, già quasi interamente dispiegato. L’interfaccia informatica, invece, ci pone di fronte ad una grande quantità di pagine la cui superficie è direttamente accessibile solo per porzioni limitate e successive. La manipolazione deve allora sostituirsi al sorvolo” (Pierre Lévy, “Les technologies de l’intelligence. L’avenir de la pensée à l’ére informatique”).

Calvino, prima dell’avvento del World Wide Web propone un nuovo modo per scrivere letteratura: l’ipertesto. Con il suo romanzo, “Il Castello dei destini incrociati” (e in un certo qual modo anche “Se una notte d’inverno un viaggiatore”) si può dimostrare che non sono tanto i mezzi tecnologici a cambiare la letteratura e la lettura, quanto la creatività di chi scrive. Il testo ipertestuale riesce a stare nei libri cartacei grazie al genio di Calvino, come invece molti testi digitali, pescabili nella Rete, non sono propriamente ipertestuali ma lunghissime sequenze di testo con animazioni, suoni e colori che non si potrebbero avere in un libro ma che non hanno le ramificazioni proprie dell’ipertesto.

Sebbene George P. Landow paragoni la scrittura ipertestuale ad un libro scientifico nel quale ogni nota esplicativa suggerisce un approfondimento relativo ad un argomento (ma bisogna fermarsi, alzarsi e andare a cercarsi un altro libro); il rinvio ad un altro documento nel web potrebbe essere un concetto che rimanda ad un link con un approfondimento più arguto, profondo e magari più ampio dello scritto base. Questo senza bisogno di ricerche esterne oltre ai link inseriti.

Il lettore, quindi può scomporre i testi e riorganizzarli secondo il suo personale filo di idee e la sua interpretazione. Di conseguenza a ciò cambia anche l’azione della lettura. Scrive Pierre Lévy in proposito: “Sappiamo che nei primi testi alfabetici non vi era separazione fra le parole. Solo progressivamente furono inventati gli spazi tra i vocaboli, la punteggiatura, i paragrafi, le suddivisioni in capitoli, gli indici, gli apparati, l’impaginazione. La rete dei rimandi delle enciclopedie e dei dizionari, le note a piè di pagina… insomma, tutto ciò che serve a facilitare la lettura e la consultazione dei documenti scritti. Contribuendo a piegare i testi, a strutturarli, ad articolarli oltre la loro linearità, queste tecnologie ausiliari costituiscono quello che potremmo definire un apparato di lettura artificiale. L’ipertesto, l’ipermediale e il multimediale interattivo proseguono quindi un processo secolare di artificializzazione della lettura. Se leggere significa selezionare, schematizzare, costruire una rete di rimandi interni al testo, associare ad altre informazioni, integrare le parole e le immagini alla propria memoria personale in perenne ricostruzione, allora si può davvero affermare che i dispositivi ipertestuali costituiscono una sorta di oggettivazione, di esteriorizzazione, di virtualizzazione dei processi di lettura.” (Pierre Lévy, Qu’est-ce que le virtuel?).

La rivoluzione nella tecnica di lettura in Rete è questa: non è più il navigatore a seguire le istruzioni di lettura dell’autore, ma si muove nell’ipertesto a suo piacimento, secondo possibili percorsi di lettura. Il navigatore si crea una sua personalissima edizione del testo che legge poiché è lui a determinare la sua organizzazione finale scegliendo i collegamenti. Ciò, avvicina la lettura dell’ipertesto a quella del giornale. L’ipertesto, è chiaro, non fa piazza pulita della lettura lineare, che rimane all’interno di ogni singola lessia.

Una buona parte delle scoperte astronomiche del Rinascimento si sono fatte in assenza del telescopio. Grazie alla stampa, Kepler e Tycho Brahe hanno potuto avvalersi di raccolte di osservazioni antiche o moderne esatte e disponibili e di tavole numeriche precise. All’epoca del manoscritto era per lo meno rischioso trasmettere graficamente la struttura di un fiore, la curva di una costa o qualche elemento dell’anatomia umana. In effetti, anche se l’autore fosse stato un disegnatore senza pari, C’erano poche possibilità che lo potesse essere anche il copista successivo. La cosa più probabile era che dopo due o tre generazioni di copie, l’immagine ottenuta non assomigliasse più all’originale. La stampa trasforma questa situazione. L’arte del disegnatore può mettersi al servizio di una conoscenza rigorosa delle forme. Gli editori di opere di geografia, di storia naturale o di medicina ricorrono ai migliori talenti. In tutta Europa si diffondono tavole anatomiche o botaniche di buona qualità, con nomenclature unificate, carte geografiche sempre più sicure e trattati di geometria senza errori accompagnati da figure chiare.

Con l’invenzione della stampa, e quindi dei libri copie uguali, il sapere ha acquistato una memoria sicura e indipendente dall’uomo. Nel software di oggi, la scrittura ha aumentato sapere e indipendenza in modo esponenziale. Inoltre, il software è un ottimo contenitore culturale, ma al suo interno, il codice, sono stringhe di scrittura; scrittura che si può “aprire” da sé, mettersi a interrogare altri software, azionare programmi o periferiche collegate al computer, volendo, persino attivare un robot e auto-riprodursi (queste le tipiche istruzioni nelle stringhe dei virus telematici) in modo sempre più autonomo di quanto possa fare una parola stampata. Oltre all’ipertesto, anche i codici scritti dai programmatori sono in fondo un nuovo e più complesso modo di interpretare la scrittura.

C’è da aggiungere che la nostra esperienza percettiva non è costituita da informazioni strutturate, ma da singoli dati. I dati di per sé non hanno valore, finché non vengono organizzati, trasformati e presentati in una modalità significativa. Poi vengono trasformati in informazioni e queste vanno sottoposte a un processo che le cambi in conoscenza e questa a sua volta può diventare sapienza. Il giornale on line può, in certo qual modo, ridurre il caos dei dati a un insieme di informazioni che grazie agli articoli associati all’argomento, all’archivio e ai link ai quali si rimanda per approfondimenti possono condurre a una conoscenza.

Tutto sommato, il modo di scrivere e di leggere che si ha nell’ipertesto – dove ogni testo può virtualmente disperdersi in altri testi, e il lettore è un lettore frammentario che legge non per tomi e volumoni ma per lessie e blocchi di scrittura – rispecchia il concetto di postmoderno. Il testo non è un tutt’uno rassicurante, ma mobile, e modificabile. C’è il disancoramento dalle regole di scrittura e lettura dettate fino ad ora. L’ipertesto appare, in confronto al testo tradizionale, più globalizzato da un lato e più frammentato dall’altro. Implica nuovi e inediti punti di vista, fra loro diversi ma anche contemporanei. Non c’è un centro principale, una lettura base ma ogni link può vivere a sé a fare da centro per altri modi di ordinare il testo. La lettura, come la scrittura ipertestuale, implica più riflessione, più attenzione nel controllare le idee. Più apertura nel confrontare il proprio punto di vista con quello degli altri. Ogni volta che si curiosa in un link si ha un’informazione non necessaria ma aggiuntiva che costringe il lettore a riconoscere i limiti del suo sapere generando una condizione di instabilità della conoscenza e della coscienza. I link nella Rete apportano conoscenza, ma instabile, perché cambiata o messa subito in discussione da informazioni successive. Le nuove tecnologie stanno facendo crollare tutti gli steccati mentali che abbiamo eretto, stanno scuotendo alla base tutte le certezze sia fisiche che metaforiche, sulle quali ci siamo basati. In questa prospettiva, l’ipertesto, con l’individuo post moderno abituato a vivere nel mondo relativo ed instabile delle mezze verità, non avrà nessuna difficoltà a continuare ad imperversare nel World Wide Web.

as we may think

Si dice che il primo in assoluto ad avere l’idea dell’ipertesto sia stato Vannevar Bush, nel 1945, in un celebre articolo dal titolo As We May Think. Bush, matematico e fisico, negli anni trenta aveva progettato una calcolatrice analogica ultra rapita e lavorava al progetto dell’eniac, la prima calcolatrice elettronica numerica. All’epoca dell’articolo Bush era a capo dell’organismo incaricato di coordinare lo sforzo di guerra degli scienziati americani per conto del Presidente Roosevelt. In As We May Think sostiene che la maggior parte dei sistemi di indicizzazione e organizzazione delle informazioni in uso nella comunità scientifica sono artificiali. Ogni item non è classificato che in una sola rubrica e la classificazione è puramente gerarchica (classi, sottoclassi, ecc.). Ma, dice Vannevar Bush, la mente umana non funziona così; funziona per associazioni. Salta da una rappresentazione all’altra lungo una rete intrecciata, traccia delle piste biforcanti, trama una tela infinitamente più complicata delle banche dati di oggi, o dei sistemi di informazione a schede perforate del 1945. Bush riconosce che senza dubbio non si può riprodurre il processo reticolare che sottende l’esercizio dell’intelligenza. Ma egli propone di ispirarvisi. Immagina un dispositivo, denominato Memex, per meccanizzare la classificazione e la selezione mediante associazioni accanto al principio dell’indicizzazione classica. Immagina l’utente nell’atto di seguire ricerche trasversali nell’immenso continente selvaggio del sapere, ma i suoi legami non si chiamano ancora ipertestuali.

HACKER KULTURE 1. Brainframes —  2. Etica Hacker – Emmanuel Goldstein — 3. Hackers – la prima generazione  — 4. gli hacker di Altair 8800 — 5. Hackers famosi — 6. il Cyber World di William Gibson — 7. Cyber Femminismo – Donna Haraway — 8. cause famose — 9. napster — 10. Jon Johansen e il codice DeCSS — 11. Software Libero – Richard Stallman – Copyleft — 12. Linux – Linus Torvalds — 13. Pekka Himanen e l’etica hacker — 14. un po’ di storia sul Copyright — 15 Open Source e Pubblica amministrazione — 16 Software, diritti d’autore — 17. Digital Millennium Copyright Act — 18. La SIAE — 19 La nuova dura legge sul Diritto d’Autore –20. e-book — 21. Cybercrime — 22. Cyberwar – Information warfare — 23. Hakim Bey e le T. A. Z. — 24. web giornalismo — 25. ipertesto —26. quotidiani on line — 27. Ipertesto, Serendipity e i Tarocchi di Italo Calvino

mio pezzo, parecchio datato ma ancora presente su Hacker Kulture dvara.net ivy

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