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L’Europa e il populismo. Nuovo allarme nazista?

Creato il 10 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

In un momento delicatissimo, dal punto di vista politico ed economico, per il contesto europeo, si sente  molto spesso analizzare, muovendo dalle basi storiche del termine, il concetto di populismo.

L’analisi di questo fenomeno (tutt’altro che recente dal punto di vista cronologico) è resa necessaria dalla presa di coscienza di ciò che sarebbe dovuto essere e non è stato: una graduale ma vivace costruzione del sogno europeo sul modello americano, fondato su quella (ancora allettante?) idea di Stati Uniti d’Europa che in molti continuano a sostenere, ma che l’UE fa morire lentamente ogni giorno con il suo implacabile rigorismo. Del resto al populismo, inteso come strategia politica fondata su legittimazione e istanze del popolo, non basta dire di no: occorre dare delle risposte per evitare il rischio di una deriva democratica sulla spinta del nazionalismo e della demagogia, altro concetto spesso erroneamente confuso con quello di populismo.

Tuttavia l’insieme è reso complicato dalla varietà di angolazioni dalle quali il populismo voglia e possa essere analizzato. Insomma, c’è populismo e populismo. C’è chi distingue il buon populismo da quello cattivo. L’accezione negativa è quella di coloro che cavalcano l’onda del disagio sociale, strumentalizzando la questione di turno e professando la propria superiorità nei confronti dell’avversario, che sia l’immigrato, la moneta unica o la sovranità nazionale.

Se questi atteggiamenti, in alcuni casi anche xenofobi e razzisti, rientrano nel concetto negativo di populismo, quello “buono” fonda le proprie radici sulla richiesta di alternatività, di un’altra Europa, di soluzioni immediate che sposino il rispetto della rappresentanza democratica diretta nonché di sollecitazioni in campo comunitario che possano concedere serie risposte ad una crisi economica ancora durissima, e seconda solo alla Grande depressione del 1929. Il termine populismo, tuttavia, rischia di diventare una formula vuota e persino inutile: se ne parla smisuratamente ma l’impressione è che populismo più che un concetto ideologico rappresenti un semplice modo di fare politica, più che mai attuale. E tutto questo accade senza nemmeno aver dedicato alle ideologie un funerale degno di nota, quanto meno per il fervore e la passione messe in campo, più che per il colore di chi rappresentava e ha rappresentato nell’Ottocento e nel Novecento le classi sociali.

1/ Un populismo ai suoi estremi. L’Ottocento tedesco e Bismarck: spregiudicatezza di un impero destinato a fallire

populismo

Fasi dell’unificazione tedesca. Photo credit: Foter / Public Domain Mark 1.0

Ma se oggi ad imperversare in Europa è il populismo, non bisogna dimenticare che, poco più di un due secoli fa, si gettavano in Germania le basi di un altro fenomeno politico, che partendo da un’analoga volontà di contestazione del sistema giunse ad esiti tragici. L’inizio del XX secolo fu infatti culla del Nazionalsocialismo tedesco e dei sistemi totalitari che spazzarono via letteralmente il concetto (peraltro ancora piuttosto debole) di democrazia.

Alla radice di questo ideologia non può non essere citata la politica imperialistica e spregiudicata del Reich e la relativa costruzione militare. La Germania continuava a sentire, ad inizio Ottocento, l’amaro sapore di un disagio emergente dopo i difficili anni del 1848-1849 (fallimento moti rivoluzionari) e le susseguenti divisioni politiche e territoriali. In particolare Federico Guglielmo IV, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente, concesse una Carta Costituzionale piuttosto limitante su un punto fondamentale: il governo sarebbe stato responsabile solo di fronte al Re, tagliando di fatto le funzioni reali del Parlamento. Ciò permise a Bismarck, cancelliere del Reich e artefice della nascita dell’impero tedesco, di ignorare eventuali veti sul bilancio militare, espandere la propria politica imperialistica e avere l’egemonia sia in Prussia che sul controllo di Austria e Germania.

Non bastò nemmeno una politica unitaria in materia doganale – il cosiddetto Zollverein (1834) – fra gli Stati appartenenti la Confederazione Tedesca; questo patto tuttavia tagliò fuori l’Austria, a causa del suo eccessivo proibizionismo in campo industriale. Lo Zollverein avviò un importante processo di industrializzazione nel ventennio 1850-1870 ma non fu sufficiente alla Germania per entrare nelle grandi del mondo economico. Si andava intanto verso una unificazione piuttosto originale, che partiva dall’alto, dall’aristocrazia degli Junker (la classe egemone di allora) piuttosto che dalla borghesia di stampo liberale. Il percorso dell’unità tedesca e della proclamazione dell’impero va dalla guerra con la Danimarca (1864) a quella con l’Austria (1866), sino alla importantissima guerra con la Francia (1870). Napoleone III capitolò definitivamente e il Reich era ufficialmente costituito: la Germania, con Guglielmo I a capo dell’Impero divenne lo stato più potente d’Europa. Questa è la sintesi della strategia tedesca da qui sino al primo conflitto mondiale, prima della terribile ambizione di espansione, supremazia e dominio di Guglielmo II (post morte Bismarck) che dovrà fare i conti con la sete di vendetta francese.

2/Un populismo ai suoi estremi. Il Primo Novecento e la diffusione del Nazionalsocialismo (1920-1945)

Con l’Impero la Germania conobbe dunque uno spiccato spirito di nazionalismo e militarismo, spinto dalla politica imperiale post Bismarck, sempre e costantemente alla ricerca di equilibri che lo potessero mettere in condizioni di evitare un nuovo conflitto con la Francia. Non a caso, l’accordo del 1882 Austria-Germania-Italia e i contatti costanti con la Russia miravano a tenere in piedi un Impero che cominciava anche a carburare economicamente, nonostante il lieve ritardo (temporale) di crescita in campo industriale. Con il Novecento la Germania voltò invece pagina a causa della perdita di uno dei più grandi protagonisti della seconda metà dell’Ottocento: Bismarck morì nel 1898 e Guglielmo II attuò una politica estera molto più spregiudicata ed aggressiva che si dissolse definitivamente dopo il primo conflitto bellico, dal quale la Germania uscì pesantemente devastata ed impoverita. La politica nazionalista “guglielmina” era fallita e l’Impero crollò per lasciare spazio alla Repubblica di Weimar (1918): gli ultimi quindici anni prima dell’avvento definitivo del Nazionalsocialismo. La situazione internazionale post bellica non sembrò trovare una immediata soluzione, in quanto le nazioni vittoriose avevano in ballo interessi diversi e contrastanti.

Il Trattato di Pace stipulato a Versailles tra le potenze vincitrici e la Germania, non a caso, passa alla storia per tre principali motivi: l’eccessivo

ammontare delle sanzioni economiche, praticamente insostenibili e tali da far sprofondare i tedeschi nell’iperinflazione del 1923, la nascita della Società delle Nazioni (nonostante le incertezze politiche di condivisione internazionale) e una pace solo apparente, oltre a colpe e sanzioni attribuite unicamente alla Germania. Ancora oggi sull’avvento del Nazionalsocialismo pesano le responsabilità politiche di tale Trattato, e successivamente della Germania stessa, rea di non aver posto un freno definitivo al progetto politico di Hitler dopo il colpo di stato fallito e un solo anno di carcere. Dalla sua cella, infatti, Hitler rielaborò e portò a termine in soli dodici anni tutta la propria ideologia e la propria avversione al nemico ebreo con il Mein Kampf. Il fallimento del colpo di Stato fu dovuto ad una ragione principale: la democrazia era assolutamente in grado, a dieci anni dall’avvento del Fuhrer, di reggere eventuali incursioni estremiste ed era ben protetta dall’aiuto economico degli Usa, il quale portò ad un periodo di ripresa e prosperità nel quinquennio tra il 1924 e il 1929. Un periodo purtroppo solo illusorio ma che allontanò parzialmente lo spettro di una inflazione assurda, già peraltro consistente durante la guerra. I prezzi erano alle stelle ed assolutamente inimmaginabili, lo Stato per ripagare i debiti alle nazioni vincitrici emise un quantitativo di denaro spropositato e tutto questo fece di fatto sparire la classe media. Basti pensare che nel dicembre 1923 un chilo di pane costava di 399 miliardi di marchi: una follia di fatto ingestibile e che i tedeschi non riescono ancora oggi a cancellare.

Le politiche restrittive attuali in campo UE sono probabilmente la testimonianza di chi è rimasto segnato da un fenomeno anomalo quanto drammatico. Oltretutto, Francia e Belgio si assunsero la responsabilità politica di impoverire e aizzare il nazionalismo e l’estremismo, occupando la Ruhr, vessandola e demilitarizzandola. Purtroppo la crisi economica paralizzò le conquiste democratiche, ritenute di fatto secondarie rispetto al fatto che nei primi anni di repubblica si stava persino peggio del conflitto bellico (non poteva essere altrimenti). La crisi del 1929 affossò definitivamente la Germania e spense il sogno democratico, decretando il fallimento del progetto Weimar. Nel 1933 Hitler salì democraticamente al potere con un sorprendente 44% di consensi e fu subito chiamato ad affrontare il drastico aumento della disoccupazione: si passò da circa un milione a sei milioni di disoccupati.

Il risultato elettorale parla chiaro: Hitler passò da un bassissimo, pressoché inesistente consenso nazionale nel 1924 (3%) a una vittoria su tutta la linea che oscurò gli altri partiti di centrodestra e decretò il fallimento della sinistra comunista e socialdemocratica. L’eccessivo numero di governi e di incertezza parlamentare fecero il resto, oltre al poco coraggio dei socialdemocratici. Dal canto suo invece, Hitler, consapevole delle proprie capacità di oratore, si mostrò pronto a raccogliere il malcontento sociale, recuperando il ruolo di tutti coloro che non si sentivano più parte di una nazione sempre più povera e ormai fanalino di coda in Europa. In conclusione, la storia insegna che non fu Hitler a distruggere la democrazia ma essa stessa ad autodistruggersi, considerato che il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori godeva di un consenso molto basso alla sua fondazione nel 1920.

3/Dopo le dittature: la Nuova Europa e l’allarme populismo

Se, fortunatamente, ben poco sembra rimanere di quella spietata cultura dell’eliminazione fisica e sopraffazione, dettata da una acuta sete di vendetta, contro i principali paesi europei ed internazionali, la nuova Europa pare essere alle prese con il rispolvero del concetto di populismo. Si pensa che questo concetto nasca in maniera vera e propria in Russia, nella seconda metà del Ottocento. Si nota tuttavia come la connotazione politica del concetto sia profondamente mutata a seguito del nuovo contesto storico e delle sfide globali che il mondo, ed in particolare la nostra Europa, è chiamata ad affrontare (regolarizzazione dell’immigrazione, crisi economica, terrorismo internazionale, conflitti civili, difficoltà in Medio Oriente). L’obiettivo di quel populismo russo era rappresentato dalla lotta allo zarismo e alla burocrazia, nella speranza di rivitalizzare il popolo – principalmente le masse contadine – ed opporsi ad una politica di sistema industriale che dava risalto, al contrario, all’espansione della classe borghese e delle nuove emergenti politiche occidentali. Oggi le sfide sono altre ed assolutamente non paragonabili in relazione al grado di complessità e alle possibilità di risoluzione. Ciò che dunque interessa davvero è comprendere quanto attuale ed in espansione possa essere il concetto, considerate le elezioni europee dello scorso maggio 2014. Emerge chiaramente una idea ben precisa del progetto politico di “fare populismo”: contestare apertamente il cantiere Europa, a volte proponendo una ridiscussione degli accordi degli ultimi anni (specie quelli gravosi sulle possibilità di rilanciare nuovi investimenti), a volte sognando un abbandono dell’Unione proseguendo chissà dove, chissà come ma riprendendo tutta la sovranità nazionale del caso.

Gli esempi sono diversi e lampanti e hanno riscosso un elevato consenso sociale, talvolta mettendo in imbarazzo partiti storici o addirittura al

governo: si veda la Francia, con il Front National di Marine Le Pen, che è stata già artefice delle sconfitte pesanti del socialismo e del suo leader, nonché presidente francese, Francois Hollande. In Grecia, le recenti elezioni nazionali hanno confermato l’espansione del movimento neofascista Alba Dorata, mentre la Gran Bretagna con l’Ukip di Nigel Farage può attualmente vantare 24 seggi al Parlamento Europeo. E che dire poi di Podemos (Spagna), sulla scia del movimento indignados,o dell’ormai affermatissimo progetto Syriza, al governo della Grecia con Alexis Tsipras: partiti capaci di scaldare i toni in una Europa invecchiata ed incapace di ringiovanire e dimenticare il muro del 1989. In Italia c’è la Lega Nord  di Matteo Salvini, inguaribile estremista e populista di destra (mediaticamente simile al berlusconismo, se volessimo conteggiare in maniera fiscale le presenze tv del leader del Carroccio), che fa ruotare il proprio progetto politico su un esasperato nazionalismo che “protegge” e coinvolge il cittadino italiano offrendogli la possibilità di sentirsi legittimato a stare davanti allo straniero, all’immigrato, al diverso.

Come a dire: fingiamo di non essere nel 2015 e dimentichiamoci di aver avuto nuova linfa proprio per aver sposato il concetto di apertura multietnica. Ma la strategia del segretario federale (sempre più aggressiva dopo le dichiarazioni contro i campi rom) pare funzionare a guardare i sondaggi e fa della Lega il partito italiano più contraddittorio della storia degli ultimi vent’anni, con gli scatoloni dei ricordi secessionisti di Bossi impacchettati a Via Bellerio ed un nuovo nazionalismo a tutela persino del Sud e di tutta la sovranità nazionale. Il tema è centrale e non può essere trascurato: il nazionalismo si immette automaticamente nel sistema europeo a causa di una burocrazia vecchia ed incapace di essere ripensata. Ciò non esclude, come accaduto nelle elezioni recenti, una difficile governabilità a causa di evidenti diversità di vedute sull’Europa e non esime le istituzioni europee da una constatazione di uno stallo che, ove dovesse prolungarsi, rischia di vederci tornare indietro anziché farci avanzare.

Ed indietro non si può tornare: il progetto di Hitler venne spinto non solo dalla follia del dittatore ma anche da un Europa colpevole ed incapace di risolvere democraticamente il periodo post bellico, preferendo isolare piuttosto che coinvolgere il popolo tedesco. Occorre perciò rispondere ai populismi, nella consapevolezza che i paragoni con il Nazionalsocialismo tedesco sono certo eccessivi, ma che alcuni elementi del populismo, specie di destra, furono cardini del progetto nazista e dunque non vanno sottovalutati. Resta comunque di capitale importanza non demonizzare il fenomeno, per evitare agevolmente ipotesi di disgregazione ed aprire ad un confronto serio e leale. Per riscattare il sogno europeo ed evitare i tragici errori del Nazionalsocialismo e delle dittature novecentesche. Per evitare di ricadere nella tana dei nazionalismi spregiudicati ed insensibili. Per scongiurare una nuova Germania anni ’30 e nuove gravi responsabilità politiche, dovute a inutili vendette e a interessi personalistici, chiusi in un bieco localismo.

Tags:alba dorata,bismarck,Francia,Germania,Guglielmo,hitler,indignados,nazionalsocialismo,nazismo,podemos,populismo,reich,syriza,unificazione,zollverein

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