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l’insostenibile leggerezza degli academy award / 6

Creato il 27 febbraio 2012 da Albertogallo

the artist

Permettetemi di iniziare in modo un po’ particolare questa tradizionale – siamo ormai al sesto anno: come vola il tempo! – disamina sui vincitori della notte degli Oscar, trascurando per un attimo il trionfatore (Michel Hazanavicius con il suo The artist) per rendere omaggio al solito, eterno, grandissimo Woody Allen: l’attore, sceneggiatore e regista newyorkese si è aggiudicato la sua ennesima statuetta, questa volta per l’original screenplay di Midnight in Paris. Come forse saprete il film in questione non mi ha proprio entusiasmato, ma sono comunque felice che un maestro come Woody abbia saputo trovare ancora, a distanza di decenni, un suo posto nell’industria cinematografica che conta. Spero che questo premio possa rilanciare le sue quotazioni, decisamente in ribasso negli ultimi anni – almeno in America.

E vogliamo parlare di Dante Ferretti? Il nostro Dante Ferretti? Scenografo tra i più geniali di tutti i tempi, questo mostro sacro (italiano) del cinema (mondiale) si è aggiudicato la terza statuetta della sua carriera grazie al lavoro svolto su Hugo Cabret di Martin Scorsese (film che, tra l’altro, si è aggiudicato soltanto premi tecnici. Giusto così). Già The aviator e Sweeney Todd gli avevano permesso, nel 2005 e nel 2008, di entrare negli annali dell’Academy. Meno male che c’è lui, in questo periodo non certo esaltante per il cinema italiano (almeno per quanto riguarda i riconoscimenti internazionali). Meno male che c’è lui e meno male che ci sono pure i fratelli Taviani. Ma di questo parleremo in un’altra sede.

E poi sì, certo, The artist. Che dire? Una valanga di premi decisamente meritata per un film che sfiora la perfezione: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista (quella faccia da schiaffi di Jean Dujardin), miglior colonna sonora e migliori costumi. Tutti sacrosanti. Ha vinto un film d’autore, quest’anno, un film anche rischioso, unico, potenzialmente non commerciale, e di questo non possiamo che essere felici: una volta tanto il baraccone degli Oscar ha saputo premiare una pellicola concepita come un’opera d’arte, un prodotto capace di divertire il pubblico (perché The artist rimane comunque un film estremamente godibile, pure se muto e in b/n) senza fare ricorso ai soliti cliché hollywoodiani. La cosa più sorprendente è che tutto ciò avvenga proprio con un film che mette Hollywood al centro della sua vicenda: The artist è (anche) un metafilm sull’industria cinematografica, sui suoi divi usa e getta, sulla crudeltà di un mondo a cui, in fondo, interessa soltanto accumulare denaro. Un film muto, francese, in bianco e nero e critico (sebbene in modo tutto sommato bonario) nei confronti di Hollywood: decisamente il vincitore più improbabile di un Oscar da molti anni a questa parte.

Per il resto non ci sono state molte sorprese: cinque statuette, come si diceva, tecniche e meritate per Hugo Cabret (scenografia, sonoro, missaggio del suono, effetti speciali e fotografia), un contentino a Paradiso amaro (sceneggiatura non originale), il solito premio a Meryl Streep per il solito biopic che non ho voglia di vedere (Iron Lady, su Margaret Thatcher), il solito miglior film straniero al solito polpettone mediorientale (l’iraniano Una separazione, che non ho visto e magari è bellissimo) e poco altro da segnalare. Piuttosto questa edizione è stata segnata dalle sue assenze: nemmeno una candidatura per l’indimenticabile Melancholia (ma un piantagrane come Lars Von Trier verrà sempre emarginato dagli Oscar, c’è poco da fare), per Drive (eppure Ryan Gosling ha tutte le carte in regola per diventare il prossimo Brad Pitt o Johnny Depp), per Shame (troppo scabroso ed europeo), per Carnage (un quartetto di attori così e nemmeno una nomination?) e per J. Edgar di Clint Eastwood, il cui protagonista Di Caprio, almeno lui, l’avrebbe meritata. Ma le regole del gioco le conosciamo, inutile lamentarsi, e quest’anno, in ogni caso, è andata bene così.

Alberto Gallo



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