Magazine Editoria e Stampa

La Costante.

Creato il 23 luglio 2014 da Philomela997 @Philomela997

La Costante

 

Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam riaspettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.

(Amicizia – V. Cardarelli)

 

Lya se ne stava stesa nel letto, il naso all’insù a osservare gli avvallamenti formati dalle travi del soffitto.
Ci vedeva tutto un mondo, lì dentro.
Un mondo che parlava di lui.
Si, lui.
Lya nella sua testa lo chiamava così, perchè le sembrava che non ci fosse mai stato nessun altro.
I ricordi andavano sparendo dalla sua memoria come terra che mano a mano viene trascinata via dalla corrente del fiume; erano passati quasi due anni, ma a lei sembrava che il tempo di prima non fosse mai esistito.
A volte, ma solo a volte, dei flash riaffioravano fortissimi e nitidi come un fil in 3D.
Colori, sapori, profumi.
Piccole perle a 360 gradi, ma tutto il resto diveniva mistero.
Era mai esistita una Lya prima di quella notte di Ottobre?
Si rispondeva di si, ma solo perchè glielo suggeriva la logica; Lya si sentiva come un John Doe che impara da capo il proprio passato dai racconti, senza ricordarsi di averlo mai vissuto.
Si era impegnata così tanto a dimenticare il prima, a non sbirciare col pensiero quei momenti, per non soffrirne più, che ora non sapeva più come fosse fatto.
Ma poco importava, Lya si sentiva nata in quella notte d’Ottobre.
Non lo sapeva perchè, o meglio, lo sapeva benissimo.
Quella notte fredda e umidiccia aveva cambiato per sempre la sua esistenza, ma quando aveva iniziato a viverla sembrava una sera come tante, anzi, peggio di tante altre.
Si era sempre chiesta quanta parte avesse avuto in questa faccenda lui in quanto lui o se fosse semplicemente arrivato il limite in cui uno puo’ morire dentro per qualcosa.
Anche questo non l’aveva mai capito.
Però aveva capito una cosa, quella notte, che se lui c’era lei era felice ed era triste quando non c’era.
Perchè?
Perchè non lo avrebbe saputo dire, però era così.
Si stizziva sempre quando quell’amica che non lo sopportava le chiedeva inacidita: “ma che diavolo ci trovi in lui?”
Lya aveva provato a spiegarlo tante volte, ma non c’era mai riuscita.
Ci provava eh, iniziava sempre la frase con decisione, convinta che stavolta sarebbe riuscita a farglielo capire: “No, vedi è che lui…” e subito dopo si ritrovata a pensare no, così no… e allora riprendeva “cioè, è che insomma…” di nuovo no, ancora non va.
E finiva sempre in un nulla di fatto.
Da spiegare, lui era impossibile.
Le veniva sempre in mente quel libro dell’esame di sociologia dei processi culturali, un tomo antiquato redatto con uno spaventoso manierismo di inizio secolo.
Periodi infiniti lunghi mezza pagina, cosparsi di incisi, concatenazioni, verbi che reggevano verbi che reggevano altri verbi.
Talmente complessi che quando arrivavi alla fine della frase non ti ricordavi già più da dove era partito il discorso.
Ecco, all’infuori dell’essere sensoriale “Lya”, lui non era un dato spiegabile.
“ma è così…scialbo”, le diceva l’amica.
Ed era vero, Lya lo riconosceva, era un uomo “mediamente”.
Mediamente carino, mediamente romantico, mediamente intelligente, mediamente divertente.
No, ecco, questo no. Gli andava riconosciuto. Era divertente bel oltre la media.
Però tutto il resto era vero.
E Lya non riusciva a capire cosa avesse di fantastico un uomo “mediamente”, né come si potesse provare qualcosa per un tizio del genere.
Ma poi, cosa provava lei?
Ecco un’altra domanda perennemente senza risposta.
Non lo sapeva.
Lui le aveva detto che non tutto può essere conosciuto, che alcune cose restano oscure; ma Lya aveva pensato che fosse una gran cazzata, o almeno che lo fosse parlando di se stessi.
Lei non s’era mai trovata niente, dentro, che restasse oscuro, prima.
Era convinta che chiedendosi le cose tonde e chiare, senza finzioni, la risposta sarebbe arrivata.
Ma non in questo caso.
S’era seduta almeno una cinquantina di volte, come a volersi fare dispetto, dicendosi “e ora non ti alzi finchè non ti sei chiarita le idee”; e alla fine aveva sempre abbandonato il campo per l’impossibilità di raggiungere l’obbiettivo.
Ma seriamente, come si poteva amare un tipo del genere?
Lya non lo sapeva.
Per lei l’amore aveva sempre avuto a che fare con grandi passioni, grandi batticuori, grandi speranze, grandi emozioni, grandi ideali.
Aveva sempre amato (e immaginato d’amare) uomini avventurosi, misteriosi, intriganti, pieni di passione, di uno sfrenato idealismo.
Sognava di viaggi esotici, giungle, sotterfugi metropolitani, libri, sesso, camere d’albergo, cibo straniero e altre cose improbabili.
Ma insomma, l’amore per essere amore, doveva avere qualcosa a che fare con il cuore che saliva in gola e le farfalle nello stomaco.
Poi, dopo essersi innamorata, Lya aveva scoperto anche tutte le piccole cose deliziose da condividere: gli abbracci, fissarsi appena svegli, una carezza casuale, fare colazione assieme, le ultime parole prima di addormentarsi.
Ma quelle venivano dopo, inesorabilmente dopo; dopo il batticuore, dopo la passione, dopo le avventure. (E solo se era un grande amore, il pensiero di condividere le stesse cose con chiunque non lo fosse le dava un senso di ribrezzo urticante).
E poi c’era lui, con cui la parte della passione non era mai esistita.
Lya non l’aveva mai trovato sconvolgentemente bello, non aveva mai sentito le farfalle nello stomaco, né tanto meno il cuore in gola, al massimo massimo, giusto un po’ di magone, a volte.
Però c’erano le piccole cose deliziose, c’erano state da subito, all’istante.
Aveva il sapore e il tocco di una persona familiare.
Dormire vicino, bere dallo stesso bicchiere, usare gli stessi indumenti, mangiare dallo stesso piatto.
Tutte quelle cose che quando tentavano di farle i suoi amanti la facevano andare in bestia.
Mangiare dallo stesso piatto poi, le superava tutte. (No, c’era sempre il dormire, ma quello veniva risolto facile da un sorriso cinico e un divano letto in salotto).
Lya odiava che qualcuno le infilasse le mani nel piatto e non si azzardava mai a farlo senza aver più volte chiesto e richiesto il permesso.
E poi c’era lui.
Che a volte si presentava con un piatto comune, e Lya adorava guardarlo mentre lo poggiava in mezzo a loro, adorava spiluccare il cibo un poco alla volta, le tornavano in mente quei passi dei vecchi poemi epici in cui le dame dividevano il desco con il cavaliere preferito.
E poi c’era tutta quella parte sotterranea di comunicazione fatta di piccoli sguardi, piccoli gesti, “meh.” ,“mah”…che tanto loro s’erano capiti.
Anche quello la esaltava, lo stare in mezzo alla gente e fissarsi, consapevoli che s’erano fatti un commento silenzioso, una battuta, un segno d’intesa.
Si sentiva tanto “partner in crime”, come se insieme si stessero facendo beffe del mondo.
E poi c’era la storia del sesso.
Col tempo aveva scoperto che quello che trovava esteticamente gradevole era molto diverso da quello che poi trovava bello.
Quindi si era inventata un trucco; ogni volta che trovava qualcuno “carino” Lya provava a immaginarsi di farci l’amore.
Se la cosa risultava anche solo fattibile, c’era una vaga speranza.
Se invece si ritrovava a chiedersi come abbracciarlo, o baciarlo, a che espressione avrebbe fatto…no, decisamente non era storia.
E poi c’erano i possibili grandi amori.
Quelli che immaginarli faceva subito rima con volerli, che facevano venire il batticuore.
Negli ultimi anni ce ne era stato uno. (No, Lya non era una persona semplice).
E poi c’era lui.
Passata la novità Lya non aveva mai desiderato farci l’amore, me nemmeno era inorridita al pensiero.
È che era talmente facile, immaginarsi con lui.
Se non con lui con chi? Si chiedeva.
Ma non aveva niente a che fare con il batticuore, e immaginarlo non faceva rima con volerlo.
Nella sua testa era solo un modo di abbracciarsi ancora più stretti, di volersi ancora più bene.
Era curiosa di conoscere tutto di lui e voleva che lui conoscesse tutto di lei.
Di lui non avrebbe avuto paura, di questo era certa.
E c’era la questione dell’affetto.
Lya gli voleva bene, ma non come alle altre persone.
Gliene voleva di più.
Ma tanto di più.
Da quando era apparso nella sua vita, Lya non aveva potute fare a meno di volergli bene.
Ci aveva anche provato, quando l’aveva fatta arrabbiare; ma era impossibile.
Ed era quel bene esuberante, quello che  ti fa fare le cose sceme.
Che ti fa saltare in braccio alla gente, e battere le mani felice, e ti fa guardare una persona e sentire che ti illumini da dentro, e ti scaldi tutto, per quanto bene gli vuoi.
Lya era timida e puccettosa, con lui.
Lei, che odiava essere puccettosa.
La verità è che aveva quella sensazione di quando sai di risultare carina anche facendo le cose sceme e puccettose, non si sentiva ridicola.
Un paio di volte gli si era persino addormentata appoggiata una spalla.
Lya non dormiva mai molto, nemmeno da bambina.
Il suo istinto le suggeriva che dormire era una debolezza, che non si poteva stare all’erta e difendersi.
Era per questo che lei detestava dormire con le altre persone, non riusciva a fare a meno di svegliarsi almeno tre o quattro volte per controllare che il vicino di letto non stesse tentando di predarla.
Poi aveva scoperto la sensazione di dormire al sicuro, con qualcuno, ed era stato bellissimo.
Le era successo solo con una persona nella vita, quella che aveva amato più di ogni altra;
così quando si era appoggiata alla sua spalla ed era scivolata lentamente nel sonno ne era rimasta stupita persino lei.
E quando si era risvegliata lui le aveva chiesto sorpreso “ma ti eri addormentata?” e lei lo aveva fissato con occhi piccoli scuotendo la testa di qua di là come a dire “un pochino”.
Sospirò, e fissò le ombreggiature del soffitto.
Lya pensò alla sua vita, a questa “nuova vita”, come la chiamava lei nella sua testa, anche se non era proprio sicura che ormai, dopo due anni, si potesse definirla nuova.
Nuova presuppone che ci sia anche un vecchio, ma questa era nuova rispetto a un passato che non ricordava più e con un futuro tutto da costruire.
Questa vita in continuo mutamento, che scorreva.
Lya aveva cambiato tutto, almeno 5 o 6 volte; lei era di carattere ansioso e già d’istinto era portata ad approcciarsi alle cose con il fare del bianconiglio di Alice, che corre da una parte all’altra gridando “È tardi! È tardi!”, in più a questo gli infiniti anni di immobilismo l’avevano portata a sentire di dover recuperare il tempo perduto.
Così aveva fatto detonare la routine, sconvolgendo ogni cosa.
Non era più esistito un orario costante, una casa costante, un lavoro costante.
Tutto mutava, era provvisorio, passeggero.
Lya cambiava tutto: casa, città, lavoro, frequentazioni, taglio di capelli.
E lo faceva con la stessa facilità e ricorrenza con cui gli altri cambiano i vestiti.
Ma alla fine i cambiamenti venivano a bussare alla sua porta chiedendo il conto; e lei si sentiva il sole di un sistema, in cui ogni piano-pianeta seguiva incurante la sua orbita, e a lei finiva col girare la testa, perchè ogni cosa se ne andava per conto suo.
E allora Lya sentiva il suo sé destrutturarsi, sparpagliarsi in tanti pezzettini distinti.
Si sentiva una piuma portata in giro da un vento cosmico; a volte era inebriante e meraviglioso, ma a volte sentiva che avrebbe voluto fermarsi, che era spersa a galleggiare nel niente,  senza nulla a cui aggrapparsi, ci voleva una costante, almeno una, per non impazzire.
E c’era lui.
Una volta Lya gli aveva detto “Sei tu la mia costante. Grazie, per essere la mia costante”. Ed era vero.
Quando i pezzettini di sé andavano via a casaccio era lui che li ricuciva insieme, che le ricordava che Lya è Lya.
Che questa donna coraggiosa, più curiosa di un furetto, che scopriva con meraviglia l’immensa vastità dell’universo esisteva davvero, ed era lei.
Questa donna che viaggiava, in cerca delle sue felicità, ed era nata in una notte d’Ottobre.
Non importava che fossero seduti nella stessa stanza, o in città diverse, o ai due angoli del mondo: le  costanti erano lì, ogni ora di ogni giorno di ogni anno di questa nuova vita.
Se l’avessero bendata, fatta girare sei volte su se stessa, e poi le avessero chiesto: “Cosa c’è di certo, nella vita sgangherata? Dai, trova una strada” Lya avrebbe indicato lui.
E l’avrebbe trovato, di questo era certa.
Quando percepiva la materialità della sua costante, allora tutto mutava.
Lya non era più una piuma spersa nel vuoto cosmico; era una retta sul piano, aveva un’origine certa.
E si scagliava dritta e affilata come una freccia verso il futuro, niente glielo poteva impedire.
E ora le sue giornate erano così vuote.
Non materialmente.
Ora Lya aveva amanti, amici, una casa, una routine.
Ma le mancava l’essenza.
Ora che lui non c’era più, mancava quel gusto di vero.
A Lya mancava afferrare la vita con tutt’e’due le mani.
O, come diceva lei, le mancava qualcuno che la conoscesse integra e intera, senza censure.
Lya sentiva una imposta separazione dal mondo, come un vetro che non riusciva a superare.
E così quando era stanca, o triste, o pensierosa, si chiudeva in casa e rifletteva, da sola.
Lya nascondeva gelosa le proprie debolezze, sempre per quella storia dell’istinto che la faceva stare all’erta come un una tigre nella giungla.
E non era una questione d’affetto, sapeva che alcune persone le volevano bene, ma se provavano ad avvicinarsi in quei momenti lei ringhiava e le cacciava via in malo modo.
Era solo una cosa che c’era o non c’era, un senso di familiarità, e di solito non c’era con nessuno.
Ma con lui si.
C’era stato, c’era sempre stato, da quella prima notte.
E questa cosa le aveva fatto paura, all’inizio, perchè non c’era verso di erigere muri, di tenerlo fuori, nemmeno quando avrebbe voluto; ma alla fine Lya ci aveva fatto l’abitudine e quel senso di familiarità era diventato una comoda, calda, avvolgente coperta in cui andare a riposare quand’era stanca del mondo.
Solo che ora mancavano talmente tante cose.
Si era abituata così facilmente al buongiorno la mattina, alla buonanotte prima di dormire, alle chiacchiere, infinite, assurde chiacchiere; alle loro riflessioni sui massimi sistemi dell’universo.
Persino le litigate le mancavano.
Rabbiose, sibilanti, rosse.
In cui volavano oggetti e parole troppo grosse.
Ma poi, poi, dopo due, tre, quattro giorni era di nuovo buongiorno, era di nuovo ti voglio bene, era di nuovo stai con me, era di nuovo ti voglio.
Tornare a cercarsi, lo chiamava lei.
Lo facevano sempre.
Una volta gli aveva detto che era così, ormai lo aveva imparato, che loro due non potevano fare a meno di tornare a cercarsi.
Ma stavolta, no.
Non lo avevano fatto.
E lei aveva applicato scientemente quella tecnica d’oblio così ben funzionante col passato.
La sottrazione, la chiamava lui.
Ogni volta che il vuoto e la mancanza prendevano forma lei si concentrava su altro, su qualsiasi altra cosa.
Dallo studio al lavare i piatti, ogni cosa andava bene.
E Lya credeva che prima o poi sarebbe tutto sparito nel buco nero della sua memoria inesistente.
Ma non era andata così, il suo cervello le aveva giocato un brutto tiro.
Uno bruttissimo.
Il suo cervello la faceva sognare; sogni nitidi, articolatissimi, pieni di terrori.
La inchiodava con le manifestazioni più bieche dei suoi babau.
E poi arrivava lui, a salvarla.
Arrivava sempre.
Quando a lei mancava il fiato e ormai l’inevitabile stava per compiersi.
Era una certezza.
E Lya lo sapeva, l’aveva imparato.
Al mattino ne ridevano insieme, ma alla fine lei gli aveva detto grazie, per essere il cavaliere che la salvava da tutte le sue più cieche paure.
E allora anche i sogni erano cambiati.
Lei non era più inerme.
Quando l’inevitabile stava per compiersi finiva col ridere e dire al babau: “Qualcuno sta arrivando per me, e quando sarà qui, ti prenderà a calci in culo”.
E i mostri sparivano. Puf.
Questi erano stati i sogni degli ultimi due anni.
E poi, di nuovo, un oblio costruito ad arte.
Ma il suo cervello non si era arreso.
Mostri, tanti, di nuovo.
E lei correva su e giù per il mondo, di nuovo spersa, di nuovo con l’angoscia di dover salvare tutto e tutti.
E una sensazione dolciastra e appiccicosa come il miele, che le impediva di ricordare qualcosa, qualcosa di maledettamente importante.
E così andava avanti notte dopo notte dopo notte.
Qualcuno che a lei piaceva, e di cui non doveva fidarsi, la irretiva senza possibilità di scampo.
Poi, un suono lontano, goffo, indistinto.
Lya doveva ricordarsi qualcosa….no, non qualcosa…qualcuno!
Ma perchè?
Non lo sapeva.
Si era sforzata di cercare nella memoria, senza successo.
E intanto il suono si faceva più forte, più nitido, più costante.
E poi di colpo aveva ricordato, le si era spalancato un angolo della mente come una diga che crolla sotto il peso dell’acqua.
Lya stava cercando lui.
Doveva trovare lui.
Al diavolo, al diavolo tutto e al diavolo tutti.
Aveva guardato quei personaggi sbiaditi, manichini, nient’altro che fantocci che la distraevano di continuo perchè non potesse ricordarsi della sua esistenza.
E le pareti del sogno avevano iniziato a crollare, erano fatte di cartone.
Tutto era fatto di cartone.
Un mondo costruito perchè Lya non potesse ricordare.
Ma il suono chiamava, distinto, sempre più familiare.
E alla fine era arrivata all’imboccatura di un tunnel di nubi di cui non si vedeva la fine.
Vorticava e vorticava.
Le possibilità di non uscirne erano ottime; si era girata un istante a guardare il mondo di cartone, e poi aveva camminato in avanti decisa.
Se per trovarlo doveva attraversare le nubi, allora, non c’era altro da fare.
Ma in fondo, Lya non aveva paura, Lya si fidava di lui.
E si era svegliata nel suo letto, e il suono non era altro che la sveglia.
Una delle tante canzoni che lui le aveva regalato.
Perchè la conosceva, e sapeva che lei l’avrebbe amata.
Di colpo la mancanza, la distanza, l’aggredirono feroci.
Ora quel pensiero le si era piantato in testa e non ne usciva più.
S’era vista con un amico, nel pomeriggio, e c’erano stati quei lunghi silenzi in cui non c’è niente da dire.
Lui si era scusato e lei aveva risposto: “No, sono abituata con un mio amico succede sem…” e si era interrotta.
Non era vero, non succedeva più.
E comunque non avevano lo stesso sapore.
Erano tesi e imbarazzati, non felici e avvolgenti.
Improvvisamente Lya aveva desiderato essere sola.
Tornando aveva salito le scale di corsa, si era richiusa la porta alle spalle con veemenza, era crollata sul letto e aveva pianto.
Aveva pianto senza sosta, per ore, per quella mancanza.
Lya non piangeva da tanti mesi; era diventata arida, di pietra.
Ora la vita le scorreva addosso senza grandi sbalzi, senza grandi tristezze né grandi felicità.
La verità è che era come se la fonte che la rendeva viva e allegra e piena di curiosità si fosse prosciugata con lui.
Lya si sentiva indifferente, non interessata davvero a niente e a nessuno, vuota.
Tornò per l’ennesima volta dai suoi pensieri alle ombre del soffitto.
Perchè?
Perchè aveva distrutto tutto?
Per paura, per indecisione, per confusione.
E allora, Lya si pose di nuovo quella domanda così scomoda: cosa provava?
Non lo sapeva.
Ancora una volta non lo sapeva.
Loro non ce li avevano i numeri per l’amore, lo aveva pensato così tanto a lungo.
Perchè l’amore ha a che fare con il batticuore e le farfalle nello stomaco.
E se invece non fosse così?
Una volta glielo aveva chiesto, se l’amore è amore perchè una persona ti fa sentire in un certo modo.
Se non è che allora stai amando il come e non il chi.
E lui aveva risposto che era una stronzata, che insieme ci si sta per starci.
Che se una persona ti fa sentire bene, è da paura.
E allora lei scorse nel pensiero come si sentiva, quando erano insieme.
E non c’era nessun batticuore, niente farfalle nello stomaco.
Le passioni violente, poi, non esistevano.
Però…
Però tutto era pervaso da un’avvolgente felicità.
Una patina sottile, che rendeva le giornate più belle.
La vita era costellata di piccole cose deliziose.
Di buongiorno la mattina e di buonanotte prima di dormire.
Di abbracci.
Di affetto, quello che ti fa fare le cose sceme.
Di piatti spiluccati insieme.
Di commenti silenziosi.
E ogni volta che lui la guardava lei si sentiva graziosa.
Non bella.
E nemmeno provocante.
Graziosa.
Una piccola cosa preziosa.
Un fine intaglio, una gemmina.
Qualcosa che solo gli estimatori sapevano apprezzare e vedere.
Che brillava se veniva esposta alla luce del sole.
Una cosetta delicata a cui voler bene.
Avrebbe sicuramente trovato altre persone che l’avrebbero fatta sentire così.
Certo, certo che le avrebbe trovate.
Ma lei non le voleva.
Non la voleva, Lya, un’altra persona.
Voleva lui.
Perchè lui era lui e non era sostituibile.
Perchè non ci sarebbe mai stata un’altra persona con la stessa storia.
E Lya la adorava, quella storia, le piaceva un sacco.
Anzi, era la sua storia preferita.
Quella che iniziava una notte umidiccia d’Ottobre, con due sconosciuti seduti fianco a fianco su una panchina della periferia romana, senza conoscere niente l’uno dell’altra.
Come ci fossero finiti, restava abbastanza un mistero.
Lui era una personcina timida timida e lei una cosetta piena di paura.
E poi…era successo.
Avevano iniziato a parlare e non avevano smesso più.
Ed erano andati in alto, in basso, a destra, a sinistra.
E poi c’erano state serate caldissime e serate freddissime.
E albe, e pomeriggi, e ritardi, e risate e pianti e scoperte e viaggi e indecisioni e litigate e dubbi e meraviglia e felicità.
Tre giorni dopo gli era saltata al collo e lui l’aveva abbracciata; e per la prima volta lei si era sentita carina, quando sorrideva.
E lui le aveva detto che sorrideva un sacco, da quella notte. Ed era vero.
Aveva aperto le mani e il passato era crollato a terra come un sacco pieno di pietre.
Ed era nata questa nuova Lya, piena di meraviglia e curiosa come un furetto.
E c’erano stati sconvolgimenti, partenze, ritorni, amici, amanti, fidanzati, lavori, esami, paure, sbronze, colazioni, cene, scherzi, musica, libri, dolci, sogni, desideri.
C’erano state malattie, esaltazioni, segreti, caffè, passeggiate, domande.
C’era stato tutto un universo.
C’erano state costanti.
E allora, poteva essere questo l’amore?
Niente passioni? Niente avventure? Niente viaggi esotici e camere d’albergo?
Niente batticuore e farfalle nello stomaco?
Lya si disse che forse l’amore stava in altro.
Nei desideri, per esempio.
Lui le aveva detto “E poi…tu te ne stai andando”, una sera di molti anni prima.
Ed era vero.
Lya aveva cambiato città.
E poi l’aveva fatto ancora, e ancora e ancora.
E lui le diceva “Sempre più lontano, te ne vai sempre più lontano.” finchè una sera lei gli aveva risposto: “Ma torno sempre. Da te, torno sempre.”.
Era innegabilmente vero, lui era l’unica persona da cui Lya tornava.
Lya, sempre in fuga da qualsiasi routine, da qualsiasi catena, aveva qualcuno da cui tornava.
Perchè lui?
Perchè un uomo “mediamente” e non un grande amore?
Perchè lui le aveva detto “Vai, se hai bisogno di andare”, “Torna, se hai nostalgia”, “Scopri, se hai desiderio di farlo”, “Leggi, mangia, sperimenta, innamorati, dimentica, piangi, ridi, vivi”.
Perchè a dispetto del mondo che la inseguiva, tentando di afferrarla, lui la aspettava.
E allora non c’era proprio nulla da cui scappare.
Non c’erano catene.
E lei glielo aveva detto: “Sei una persona diversa, l’unica dalla quale ho voglia di tornare ancora e ancora e ancora, l’unica che mi ha capita. Che ha scelto di lasciarmi scegliere. Che ha compreso quale è l’unica cosa che mi farà tornare sempre: lasciarmi libera”.
Di colpo Lya si riscosse e osservò il telefono.
Aveva una gran voglia di chiamarlo, di sentire la sua voce, di ridere insieme.
Tornare a cercarsi, lo facevano sempre, presto o tardi non sapevano farne a meno.
Ma lei non sapeva ancora che dire, né cosa provasse.
Ma era tanto importante?
“Tu pensi troppo” le diceva sempre.
Ed era vero.
Lya lo rivoleva, quel suo splendido uomo “mediamente”.
Mediamente carino, mediamente romantico, mediamente intelligente, mediamente fantastico.
Lya voleva scrivere un bel finale per questa storia, non le importava fosse il più bello di tutti.
Non importava che ci fossero la giungla e le camere d’albergo.
E nemmeno le farfalle nello stomaco.
Le bastava riavere le cose di prima.
Ma cos’era quella cosa?
Come chiamarla?
Poi si ricordò che non tutto può essere conosciuto, che alcune cose restano oscure.
E forse, andava bene così.
Forse a voler mettere troppo i puntini sulle i si rovina tutto.
In fondo, cos’era davvero importante, il nome delle cose o le cose stesse?


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :