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La difesa psicologica

Creato il 12 marzo 2015 da Speradisole

LA DIFESA PSICOLOGICA

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Un bambino di un anno o poco più malgrado l’amorevole e attenta sorveglianza della mamma, ha battuto la testa allo spigolo di un mobile. La mamma, dopo essersi accertata che non fosse niente di serio, e dopo aver abbracciato e confortato il bimbo, si è rivolta allo spigolo del mobile apostrofandolo “Brutto e cattivo, non farlo più!”, e percuotendolo ripetutamente con la mano.

Ho sempre pensato che il comportamento di queste madri sia un po’ idiota. Che senso ha prendersela con un pezzo di legno inanimato? Stavolta ho voluto pensarci sopra in modo meno superficiale, anche memore del fatto che “le mamme non sbagliano mai” come scriveva il grande Giovanni Bollea, padre della neuropsichiatria infantile.

Una madre, nella sua infinita sensibilità, si rende conto che nel momento del trauma la prima urgenza è quella di lenire il dolore, che ha sempre una profonda componente emotiva. Così al bambino dolente, ma anche traumatizzato e confuso, può essere più che opportuno offrire una realtà “alternativa”, evidentemente falsa e assurda, ma emotivamente anestetizzante, in cui lui resta il bimbo di mamma, bello buono e bravo, e tutte le colpe e le punizioni vanno allo spigolo “brutto e cattivo”. Ci sarà tutto il tempo, superata l’emergenza, per insegnare a stare attenti a certi pericoli. Sarebbe invece del tutto controproducente aggiungere trauma a trauma dicendo al bambino “Ma che fai? Stai attento!” che per quanto può essere detto in tono amorevole è sempre una comunicazione di inadeguatezza, di colpa, di rimprovero.

Noi adulti non siamo esenti da meccanismi di questo genere. Siamo tutti più fragili e vulnerabili di quanto amiamo pensare e mostrare. In mancanza di una mamma che lo faccia per noi, siamo noi stessi, nei momenti di dolore, di trauma, di paura, a costruirci realtà alternative adeguatamente aggiustate, semplificate, “emotivamente anestetizzanti”.
“Stavo guidando tanto bene, improvvisamente l’albero si è spostato in mezzo alla strada e ci sono finito contro”.
Questo può essere un caso esagerato, evidentemente comico, ma spesso non ci andiamo tanto lontani.
Quanto è facile convincere un malato di qualche malattia di quelle brutte, e tutti i suoi cari, che la nuova cura del Dott. Tiziocaio possa fare miracoli per lui, e che è solo un complotto internazionale di fortissimi interessi economici se la scienza ufficiale non la riconosce?
Penso che perfino la fede religiosa si basi su un meccanismo di questo genere. Immaginare di vivere in un mondo governato da un benigno onnipotente creatore è sicuramente “emotivamente anestetizzante” rispetto al dover sopportare gli stress della vita e il pensiero dell’inesorabile destino che ci aspetta tutti, senza la possibilità di darvi un senso ulteriore. Il problema grosso è quando ci si “anestetizza emotivamente” con una realtà che preveda un dio solo per poter dar libero sfogo ai nostri istinti più violenti e bassi.

Qualche volta capita che il meccanismo scada nel patologico. Si subisce un trauma così forte che si entra nella realtà virtuale per anestetizzarsi e si finisce per non riuscire ad uscirne più. E qui mi viene in mente “L’odore della notte” di Camilleri, col personaggio di Mariastella Cosentino (Donna rimasta sola dopo la morte del carissimo padre, molto bisognosa d’affetto, che crede ancora nell’onestà del suo direttore e che ne aspetta fedelmente, giorno dopo giorno, il ritorno, ostinandosi a tenere a sue spese aperto l’ufficio ed esponendosi ai violenti reclami dei truffati).

Ma in generale questo è un meccanismo assolutamente umano, di elementare difesa psicologica, che va riconosciuto e tollerato benevolmente, negli altri tanto quanto in noi stessi. Quando il dolore, lo stress, legato a un trauma, torna a livelli sopportabili, ognuno di noi è generalmente in grado di abbandonare la realtà virtuale anestetizzante e tornare a fare i conti con una che si avvicini un po’ di più a quella vera.



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