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La guerra di Višegrad nei ricordi dei camici bianchi. Sopravvivendo nella terra di nessuno

Creato il 01 settembre 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Reportage: “Sarajevo vent’anni dopo. Il volto nuovo di Mostar, Višegrad e Srebrenica”

L’istituto delle “subnormali” di Višegrad

Gli abitanti di Višegrad la chiamavano comunemente “la casa delle matte”. Nessuna provocazione. Nessun intento discriminatorio. È forse l’emblema della guerra in questa cittadina della Bosnia sudorientale. Quando la guerra raggiunse le strade e i palazzi di Višegrad e l’artiglieria allungò il tiro sull’ex casa federale per l’assistenza infantile delle subnormali (così come erano classificate le ragazze degenti all’interno della struttura), buona parte del personale sanitario attivo abbandonò il complesso. “C’è stata una fuga in massa” ci racconta una donna che ancora oggi vive a Višegrad e conosce bene la storia della casa federale, “Ben presto sono rimaste una quindicina di infermiere a badare a un centinaio di donne. Forse addirittura qualcuna di più”.
Questa donna – che presumiamo abbia conosciuto da dentro la struttura sanitaria – ricorda la continua carenza di cibo e medicine. “Diverse donne erano costrette a restare chiuse nelle camere, perché l’assenza di farmaci non gli permetteva una vita normale” ci spiega. L’istituto di Višegrad era collocato in cima a una collina tra i campi minati dai musulmani. Un’isola di terrore in mezzo al nulla, o quasi. Durante la Guerra di Bosnia e gli attacchi violenti alla città di Višegrad, parecchie donne ricoverate sono fuggite dalla struttura. Era così che le infermiere le rincorrevano rischiando loro stesse la morte. Diversi medici erano fuggiti con l’inizio della guerra. E con la consapevolezza che lo Stato centrale non forniva più la dovuta assistenza economica alle strutture di ricovero, molte donne – affette da patologie psichiatriche e internate in altri complessi della Bosnia – hanno raggiunto l’istituto di Višegrad. Il risultato è stato ben presto un sovrappopolamento degli spazi e una drammatica carenza di personale di controllo. “Ricordo che qualche donna della città era andata in aiuto delle poche infermiere rimaste” ci racconta la signora, “Era prima di tutto una questione di solidarietà, una questione di cuore”.

La testimonianza della sopravvivenza nell’istituto durante la guerra

I racconti sono tragici, al limite dell’umano. Sono i racconti di chi ha vissuto in quegli spazi angusti, mente fuori imperversava il conflitto. Le donne violente erano isolate dalle altre, ma era difficile trovare spazi da adibire alle une e alle altre. Questo è quanto almeno abbiamo compreso dai racconti ascoltati. “C’era una donna violenta che viveva in una stanza chiusa” ci viene riferito, “Spesso sbatteva contro la porta e urlava. Ma non poteva stare insieme alle altre donne”. Diverse ragazze gridavano e finivano prede di una crisi profonda, quando poco fuori le milizie armate bombardavano la città e i territori limitrofi. Alcune donne soffrivano di epilessia, e l’assenza di farmaci determinava l’insorgere più frequente di crisi.

“La casa delle matte” ci racconta una donna, “è il simbolo della barbarie a Višegrad. Era quella guerra di cui i giornali hanno raramente parlato. Una guerra silenziosa, quasi impercettibile”. Le domandiamo dunque il perché. Quale idea si sia fatta su questo silenzio degli organi d’informazione. Ci spiega che la Guerra di Bosnia era la guerra di Sarajevo, dei bosniaci musulmani contro i serbi, dei mostri che mettevano a ferro e fuoco il Paese. Di quello che capitava nella “casa delle matte” non interessava a nessuno. Persino i medici – ci tiene a ricordarcelo – se n’erano scappati coi primi colpi d’artiglieria. “Quella era la terra di nessuno. Un lenzuolo di terra in preda all’anarchia” esclama con rabbia. Ci racconta poi che l’istituto andò avanti nella sua attività – durante la guerra – con le donazioni che occasionalmente riceveva e con i pochi soldi rimaste nelle tasche delle infermiere. “Mancava il cibo. E con la fame tutto era più difficile” ci riferisce la donna, “Come si poteva spiegare a quelle ragazze che la guerra toglie il pane dalle tavole?”. Ascoltiamo la testimonianza di chi ci racconta che ogni tanto all’istituto arrivava un camion dell’esercito. Era così che venivano scaricate delle scatole di cibo che finivano riposte nella dispensa. “Per diversi giorni il camion non arriva. Accade che la guerra sia troppo violenta, e l’esercito non si arrampica fin quassù” ci viene raccontato.
Poco fuori dall’istituto si innalzava un muro che è stato letteralmente crivellato di colpi durante la guerra. Poco più in là, poi, iniziavano i campi minati dove ogni tanto scappavano le pazienti della struttura. “Si rischiava la strage ogni volta” esclama una donna, “Ma come si poteva tenere tutte quelle donne chiuse là dentro!”. Una signora sulla sessantina d’anni si avvicina e ci racconta la cattiveria dei serbi. Ci spiega che durante la guerra circolava la voce che le infermiere permettessero alla paziente di abbandonare l’istituto e correre sui campi per disattivare le mine. “Chi è rimasto a lavorare alla casa delle matte” ci dice, “l’ha fatto per un atto di coscienza. Per garantirsi la salvezza, sarebbe stato più facile scappare subito”. La grande sconfitta – comprendiamo dalle parole ascoltate – è il silenzio che ha investito la casa di ricovero di Višegrad. “Non potevano curare le malattie soltanto con le preghiere” ci dice una donna, “Non bastava dio per vincere quell’inferno”.

Tags:bosnia,Guerra,malattia,medici,sanità,sarajevo,visegrad. psichiatria Next post

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