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La morte di Pëtr Il’ič . Klaus Mann e Tolstoj

Creato il 09 giugno 2015 da Dragoval
La morte di Pëtr Il’ič .  Klaus Mann e Tolstoj,La notte che Pëtr Il'ič trascorse fu pessima, al punto che per tutta la giornata si sentì a pezzi, con tutte le membra indolenzite. Disdisse tutti i suoi appuntamenti e rimase a letto. Impaurito, pensò che probabilmente quel malessere provenisse di nuovo dal cuore. Immaginava in modo impreciso ma orribile una grave sofferenza cardiaca, che riteneva un castigo; che i medici, quei perfidi buffoni, si ostinavano, è vero, a non voler individuare, che però - appunto perciò - un giornLa morte di Pëtr Il’ič .  Klaus Mann e Tolstojo gli avrebbe arrecato una morte tanto più sicura e più atroce. "Il mio cuore è completamente rovinato. Non funziona ormai quasi più" soleva dire con aria cupa.

Nel romanzo Sinfonia patetica, Klaus Mann, figlio geniale e difficile del celebre Thomas, racconta gli ultimi anni del compositore Čajkovskij, la sua inquietudine, l'incapacità di trovare pace o requie in alcun luogo, l'insoddisfazione perpetua per i proprio lavori, il dubbio sul suo genio, il tormentoso e struggente rapporto con il nipote Vladimir, e, soprattutto, il presentimento costante della morte. In realtà, proprio l'evoluzione di quest'ultimo è il filo rosso del romanzo: la morte segue Pëtr Il'ič come un'ombra, e si esprime essenzialmente come tormento , come muto colloquio con Dio, quell' Essere Remoto, distaccato e distante che pure conosce fin nel profondo i cuori degli uomini ed esige da ognuno ciò che è giusto. Per il tema, la quasi omonimia dei personaggi ele allusioni e e le citazioni quasi letterali, come si vedrà, leggendo questo romanzo per me è stato inevitabile il rimando a La morte di Ivan Il'ič .

Čajkovskij riconosce in una frase di Hermann Bang, lo scrittore danese senzapatria (a cui lo stesso Mann:

Si dice che chi vede Geova, è destinato alla morte. Ma io ti dico che se un solo individuo riuscisse a vedere in fondo all'anima di un altro, morirebbe. E ove fosse pensabile di poter vedere il fondo dell'anima propria, porre da sé e senza far parola il proprio capo sopra un ceppo sarebbe considerata un'esigua ma necessaria punizione.

Pëtr Il'ič corteggia la Morte da tutta la vita. Da quando la sua bella e inaccessibile mamma, infelice per il matrimonio con Il'ja Čajkovskij, uomo troppo robusto, sano e disinvolto, troppo distante e chiusa in sé stessa per trovare conforto nell'amore paterno, ha consapevolmente bevuto un bicchiere d'acqua contaminata dal colera, andando incontro ad una morte atroce. Successivamente, a seguito del matrimonio bianco con Antonina Ivanovna Miljukova, concluso sull'onda lunga di un impeto irrazionale, Čajkovskij cerca la morte immergendosi nelle gelide acque della Neva, ma senza riportarne altro che un terribile raffreddore.

La morte di Pëtr Il’ič .  Klaus Mann e Tolstoj
Il desiderio di Pëtr Il'ič di essere altrove ma non lì e non certo in quella situazione, divenne talmente forte che decise di provocare Iddio perché lo facesse morire: a tal bisogna, la madre gli aveva fornito l'esempio, e a lei occorreva obbedire. Nottetempo, egli corse al fiume Moscova - era autunno e faceva già freddo - e con tutti gli abiti entrò fino al petto dentro l'acqua gelida. Una cosa spiacevolissima. Egli batteva i denti. La sua fiduciosa speranza era di prendersi una polmonite e di morirne senza dare nell'occhio. Ma la polmonite non venne, prese soltanto un raffreddore e aveva battuto i denti inutilmente.

Così fu costretto a trovare da solo una via d'uscita, poiché quel Dio così provocato non lo aveva compiaciuto[perché]il più era incompiuto, l'Iddio severo non era soddisfatto, non si muoveva, non sorrideva, non era in collera: attendeva. Non si tratta nè dell'intestino cieco nè del rene: si tratta della vita... e della morte. Sì, la vita c'era e ora se ne va, se ne va e non posso trattenerla. Già. Perchè illudermi? Non è forse evidente per tutti, tranne che per me, che io muoio, e che è questione soltanto di settimane, di giorni?... posso morire in questo momento. C'era la luce e ora sono tenebre. Io ero qui e ora vado là... Dove?". Fu invaso da un gelo e gli si fermò il respiro. Sentiva solo i battiti del cuore. "Io non ci sarò più... ma che cosa ci sarà? Non ci sarà nulla. E dove sarò io quando non vivrò più? Sarà dunque la morte? No, non voglio".

Quel Dio severo e paziente che ha impedito a Pëtr Il'ič di morire è lo stesso che, altrettanto incomprensibilmente, condanna a morte Ivan Il'ič Golovin, membro della Corte di giustizia di Pietroburgo. Il racconto di Tolstoj si apre appunto con la pagina di giornale listata a lutto con cui la vedova Praskovja Fëdorovna Golovina annuncia ai colleghi del marito e alla cittadinanza tutta la sua dipartita, a cui seguono naturalmente, da parte dei colleghi stessi, tutti i commenti e i pensieri sugli obblighi di rito, in cima ai quali c'è naturalmente la preoccupazione per chi dovrà occupare il posto rimasto vacante (ah, feroce ironia tolstojana!).

.In loro vedeva se stesso, vedeva tutto ciò per cui era vissuto, e capiva chiaramente che nulla era stato come doveva essere, tutto era stato un terribile, enorme inganno, che nascondeva la vita e la morte. Questa convinzione aumentava, decuplicava le sue sofferenze fisiche. Si lamentava, si agitava, si strappava di dosso i vestiti. Aveva la sensazione che lo soffocassero, lo strangolassero. E perciò odiava tutti[...] . Piangeva sul suo stato senza speranza, sulla sua tremenda solitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di Dio, sull'assenza di Dio. "Perchè hai fatto tutto questo? Perchè mi hai condotto a questo punto? Perchè, perchè mi torturi così atrocemente?". Non aspettava risposta e piangeva perchè non ci era nè ci poteva essere una risposta. [...]Poi tacque, non soltanto smise di piangere, ma trattenne il fiato e si fece tutto intento ad ascoltare, ad ascoltare non una voce che dicesse delle parole, ma la voce dell'anima che gli parlava dentro in un nuovo giro di pensieri. "Che vuoi?" fu la prima cosa chiara che gli riuscì di udire espressa con parole. "Che vuoi? che vuoi?", ripeteva la voce dentro di lui. "Che voglio? Non soffrire, vivere", rispondeva egli.

Solo successivamente Tolstoj ci racconta come Ivan Il'ič , sposato, affermato, completamente dedito al lavoro e alla carriera, cominci a vedere la propria salute compromessa da questo o quel dolore, prima insignificanti, poi sempre più forti ed insistenti; e come, nonostante le pietose rassicurazioni dei medici, egli abbia all'improvviso la rivelazione di cosa stia veramente accadendo:

soffriva solo solo quelle indicibili torture, e solo solo ripensava sempre gli stessi inesprimibili pensieri. "Che è questo? Ma è dunque vero che è la morte?". E una voce interna rispondeva: "Sì, è vero". "Perchè queste torture?". E la voce rispondeva: "Così, senza un perchè". E oltre a questo nulla. [...]In quel preciso momento suo figlio entrò pian piano nella camera e si avvicinò
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al suo letto. Il moribondo urlava sempre disperatamente e agitava le braccia. Una mano gli cadde sulla testa del fanciullo. Il fanciullo la prese, se la strinse alle labbra e cominciò a piangere. In quel punto Ivan Ilijc si sentiva precipitare giù e vedeva la luce e gli si rivelava che la sua vita non era stata quel che doveva essere, ma che ancora tutto si poteva riparare. Egli chiedeva a sè stesso: "Ma che cosa è questo?", e si quietava, con l'orecchio teso ad ascoltare. Allora sentì che qualcuno gli baciava la mano. Aprì gli occhi e guardò il figlio. Gli prese pietà di lui. La moglie si avvicinava. La guardò. Essa, con la bocca aperta, col naso e le gote umidi di lacrime non asciugate, con un'espressione di sgomento, lo guardava. Egli ebbe pietà di lei. "Sì, io li tormento", pensava. "Essi mi compiangono, ma sarà meglio per loro quando io morrò". Avrebbe voluto dir questo ma non aveva la forza di parlare. "Del r
esto, perchè parlare? Bisogna agire", pensava. Con lo sguardo mostrò il fanciullo alla moglie e disse: "Conducilo via... mi fa pena... e anche tu mi fai pena...". Ora mi figurerò il Nulla, così mi addormenterò. Voglio immaginare la morte, perché cancelli i ricordi dal gusto amaro.
Come sarà quando la verità della mia povera vita verrà estorta a mezzo d'incomprensibili punizioni e il compito sarà assolto? Sarà così: si udrà uno scroscio. E io cadrò... Cadrò, sì, ma allora non sarò già più io: oh liberazione.
Oh dissolvimento, oh liberazione...

Ivan, assieme alla consapevolezza di dover morire, comprende all'improvviso la propria solitudine, la distanza della moglie, superficiale, querula ed egoista, e dai figli che pure hanno seguito, come del resto egli stesso, tutte le tappe di una vita comme il faut:

Čajkovskij, le cui dita carezzavano teneramente l'orologio, l'oggetto più bello che possedesse. "C'è ancora, è ancora nella mia vita! Che bella cosa che sia ancora nella mia vita! Bellissimo è questo Apollo sull'orologio. Ancor più, però, amo la Pulzella d'Orléans, riprodotta sull'altro lato...". La Pulzella era un richiamo, per un cuore avido di ricordi. Non che gli richiamasse alla mente l'opera da lui scritta sull'eroina - a quell'opera non pensava davvero volentieri, la trovava un vero fallimento, una "grande opéra" nel significato più insulso, fortemente influenzata da Meyerbeer, e del resto non aveva avuto molto successo. Insieme col nome della Pulzella d'Orléans, risorgeva in lui il mondo dell'infanzia, un mondo dileguato, cui andava tutta la sua nostalgia. E durante il lavoro di ogni giorno, da una tournée all'altra, un desiderio lo assillava: scrivere finalmente qualcosa che rendesse meno terribile il tempo "oltre l'orrore della morte". Non cessava mai di pensarci: né in casa sua, a Klin, dov'era preda delle sue continue angosce; né all'estero, quando una disperazione inesplicabile s'impossessava di lui. Una sinfonia. Una nuova sinfonia. La sesta.
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Presto sarà finita. L'opera procede. Che il mondo non resti atterrito dinanzi alla sua tremenda sincerità - fortuna che non sarà certo in grado di capirla. Resterà sbalordito dinanzi a quella massa di suoni, in cui si è riversato tutto ciò che ha mosso l'animo, torturato e inebriato quella povera creatura mortale[...] L'altro invece, l'Essere Remoto, la comprenderà appieno, e assentirà soddisfatto.[...] Qui c'è uno occupato a dar forma coi suoni al significato della propria vita - questo e non altro è stato il suo dovere e il compito assegnatogli. Quando il compito è adempiuto, giunge la liberazione. Forse essa non sarà che trasformazione - non chiedere, povero cuore! Non cercare parole e spiegazioni! Che cosa significano le parole? Agisci obbediente secondo l'incarico ricevuto dalla suprema istanza! Affrettati a finire! Che te ne importa se è liberazione o trasformazione? Sii pur sicuro che il cuore consunto si dissolverà. Non aver dubbi: potrai riposare.
Spiegare perché avesse vissuto su questa terra. Perché sarebbe morto, probabilmente di lì a breve. Svelare finalmente quel suo amore di cui non osava parlare ad alta voce.

E' la scoperta - la rivelazione della menzogna, dunque cosa che più di ogni altra avvelena la vita ad Ivan Il'ic. E proprio della solitudine totale nascono le domande di senso:

Ivan Il'ič si rende conto soltanto alla fine che la sua vita è trascorsa, che il suo tempo è stato davvero perduto, che lo ha sprecato, che nulla nella sua vita è stato come sarebbe dovuto essere, poiché solo sulla nostra vita noi abbiamo, finché siamo vivi, controllo e potere, mentre la morte rimane aldilà del nostro orizzonte, tanto inesorabile quanto incomprensibile. Eppure Ivan Il'ič in questo passaggio non sarà solo: ad accompagnarlo, angelo rivelatore e misericordioso, sarà il figlio Volodia, che piangendo si stringe una mano alle labbra. E' in quel momento che Ivan Il''ič sente che ancora tutto si poteva riparare, che infine a riscattare e a dare senso ad un'intera esistenza basta un solo istante, un ultimo atto-d'amore:

Dopo l'ultimo e più raccapricciante accesso, il moribondo rimase in uno stato di esaurimento, da cui non si riebbe più. S'assopì un poco; quando si ridestò, aveva di nuovo la mente schiarita, ma era esausto.
[...]
Era quasi mezzogiorno del 24 ottobre quando il dottor Bertenson ritenne necessario ordinare al malato un bagno caldo, "per stimolare l'attività renale", com'egli disse. Pëtr Il'ič si lasciò svestire e portare nella vasca senza opporre resistenza. Una volta seduto dentro l'acqua calda, sorrise, con gli occhi chiusi. "Abbastanza piacevole..." bisbigliò sorridendo. "Un caldo piacevole...
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Mia madre pure è morta dopo esser stata messa nell'acqua calda... Si usa così, certo..."

Nel suo corpo rugoso, villoso, bianco e deformato, il volto placato con gli occhi chiusi aveva assunto una dignità commovente, una grande bellezza. La sua fronte si era fatta quasi luminosa. Tutto, in quel viso, era disteso. Convulsioni e tormenti
sembravano allontanati da lui.

L'attività cardiaca era assai debole. Già dopo pochi minuti, lo si dovette togliere quasi svenuto dall'acqua. L'espressione di una perfetta serenità e pacificazione rimase sui suoi lineamenti. La coscienza lucida non ritornò più.

Anche per Pëtr Il'ič ci sarà un pietoso e magnifico angelo della morte. Il giovane Vladimir, (da lui ribattezzato affettuosamente Bob), figlio dell'amata sorella Saša, diviene per il compositore oggetto d'amore e ispirazione, ma soprattutto il tenero custode del suo sonno notturno- che egli immagina e vive come viatico al Sonno eterno, cercando di prepararsi, di prefigurarsi la Morte:

[...] L'amabile nipote, certo, non intuisce nulla dei giochi bizzarri che il venerato benefattore e amato zio, il grande amico, compie col suo volto e con la sua voce. Potrà mai sapere che, nottetempo, egli si libra in veste di materno angelo della morte nella camera da letto dell'anziano? Certo ne sarebbe atterrito e avrebbe forse un po' di paura, semmai lo venisse a sapere. Ma

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il furbo Pëtr Il'ič non gli svela nulla. Con grandissima cura egli separa il giovane Bob, che gli tiene compagnia in modo così fresco e rigenerante durante il giorno, dal misterioso efebo dal volto duplice di quel quarto d'ora estatico che precede il suo sonno. Per il Vladimir notturno, il paggio di morte, egli prova un amore estasiato, esaltante, misto a reverenza, anzi perfino paura; per il Bob che vive e respira, invece, la più naturale e più riconoscente tenerezza.

Non è certo troppo difficile riconoscere qui il rimando al romanzo sulla Morte di Mann senior: il giovane Vladimir sembra rivestire qui il ruolo che fu di Tadzio negli ultimi giorni di vita del professor Aschebach, ucciso anche lui (come la madre di Pierre, come poi lo stesso Pëtr Il'ič ) da un avventata e volontaria esposizione al colera. MA Vladimir ha un destino e un carattere più compiuti di quelli di Tadzio: pietoso accanto al capezzale dello zio fino all'ultimo istante, ma anch'egli ormai compromesso nella salute, morirà suicida pochi anni dopo.

Costante,per Pëtr, (Pierre), ed Ivan,è il ri-correre del pensiero al passato, all'infanzia, che anche nei momenti più terribili diviene fonte di luce, motivo di consolazione. La proustiana cattedrale del ricordo,risorge, anche per loro, immensa e nitida (in Mann, evidentemente, con intenzione):

Ivan Ilijc viveva soltanto con l'immaginazione nel passato. Uno dopo l'altro gli passavano davanti agli occhi i quadri del suo passato. Cominciava sempre col vedere quelli dei tempi più prossimi ed era poi ricondotto ai più lontani, a quelli della sua infanzia e in quelli si fermava. La marmellata di susine nere che ora gli davano da mangiare gli rammentava le susine crude, quelle susine francesi, tutte grinzose, della sua infanzia, quel loro sapore particolare, e la saliva che gli veniva in bocca quando arrivava al nocciolo: e questi ricordi dei sapori evocavano tutta una serie di ricordi di quel tempo: la bambinaia, il fratello, i giocattoli. "No, non ci devo pensare... fa troppo male", diceva fra sè Ivan Ilijc e di nuovo tornava al presente. I bottoni della spalliera del divano e le pieghe del marrocchino. "Il marrocchino è costato molto e non dura niente: ci fu un litigio a questo proposito. Ma ci fu a proposito di un altro marrocchino un altro litigio, quando lacerammo il portafogli del babbo e fummo castigati e la mamma poi venne a portarci i dolci". Di nuovo i suoi pensieri tornavano all'infanzia e di nuovo Ivan Ilijc ne soffriva e si sforzava di scacciarli e di pensare ad altro. E insieme a questo giro di ricordi, nella sua mente sorgevano altri pensieri: come s'era aggravata, come era cresciuta la sua malattia. Più guardava indietro, più c'era vita. Più era buona la vita e più era intensa. Gioia e vita andavano insieme.

Le susine nere e il marrocchino di Ivan, divengono per Pierre l'orologio con Apollo e Giovanna D'arco, dono della sua governante, la sua amata Fanny:

E proprio dal passato, dal regno dei morti a cui Pëtr Il'ič pensa continuamente che iniziano a giungere i segni che il suo cerchio si sta ormai chiudendo. Inaspettatamente, venticinque anni dopo averla vista per l'ultima volta, Pëtr Il'ič riceve una lettera di Fanny, che lo prega di andarlo a trovare. Incredulo eppure deciso, egli si reca a trovarla nei giorni precedenti al capodanno del 1893 , aMontbeliard, il paese di cui ella era orginaria; ma l'infinita distanza del tempo è annullata dalla semplice frase con cui la sua antica governante lo accoglie, immutata: "Eccola dunque, caro Pierre" . A questo segue poi, pochi mesi dopo, la morte di Apuchtin, il suo antico compagno di studi, l'anfitrione che lo aveva iniziato all'amore e alla vita. Ecco dunque che Pëtr Il'ič inizia a dare forma alla sua opera, al requiem per se stesso, ad una sinfonia a programma, un programma incomprensibile che nessuno avrebbe compreso. Come scrive Nina Berberova, nella sua biografia di Čajkovskij, Il ragazzo di vetro:

La 6 Sinfonia, la Sinfonia Patetica, è dedica a Vladimir. Ma Vladimir riuscirà a comprendere l'enigma che cela quella musica? Non ha importanza. L'attività procede febbrile, Pëtr Il'ič lavora instancabile nella torride estate, nella sua casa di Klin. Con cenni e allettamenti, l'amato coi tratti della madre fluttuava davanti alla ringhiera del letto. "Obbediscimi!" esclamava con crescente insistenza la voce familiare. Allora Pëtr Il'ič rispondeva: "Presto! Sarà compiuta presto. Ancora qualche settimana, e l'opera sarà finita, la verità della mia povera vita estorta. Aspetta ancora un poco, caro volto! Abbi ancora un poco di pazienza, bella mamma!"

Quando tutto è compiuto, o almeno tutto è stato compreso, si può arrivare ad essere pronti e ad accettare - forse-la fine; solo allora il dolore scompare e si dissolve nella liberazione, nella luce:

Li berarli e liberarsi da quelle sofferenze. "È così bello e così semplice", pensò. "E il dolore? Dov'è andato? Dove sei tu, dolore?"

La morte di Pëtr Il’ič .  Klaus Mann e Tolstoj
. Si fece attento. "Eccolo. Ma che importa ora?". "E la morte dov'è?". Cercava il suo antico, solito terrore della morte e non lo trovava. Dov'è la morte? e che cosa è la morte? Non esisteva più terrore perchè non esisteva più morte. Invece della morte c'era la luce. - Ecco che cos'è! - proruppe a un tratto ad alta voce. - Che gioia! Tutto ciò accadde in un istante, ma il significato di quell'istante non poteva più mutare.

Come Ivan, anche Pierre , ora che la Sinfonia è compiuta, ora che il suo grande amore per Vladimir e per la musica è dichiarato, chiarito in una sublime coincidenza, può finalmente lasciarsi andare, rivelare la propria essenza dando vita ad una nuova, commovente Pietà:

RISORSE

La pagina della casa editrice Iperborea dedicata ad Herman Bang, con le opere tradotte in italiano. Allo scrittore danese Klaus Mann ha dedicato il romanzo- documento L'ultimo viaggio di un poeta

Il testo integrale del racconto di Tolstoj, da cui son tratte le citazioni qui riportate.


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