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La solitudine delle mamme: storie di ordinario sacrificio

Creato il 27 agosto 2014 da Postik @postikitalia

La solitudine delle mamme: storie di ordinario sacrificio

Si corre il rischio di essere tacciati di parzialità dai papà-prodigio, sempre più numerosi, tra l’altro, nell’affrontare la problematica delle mamme o meglio della solitudine delle mamme. E’ di questi giorni la notizia di uno studio dell’Università di Cambridge che ha dimostrato che se una mamma allatta riduce del 50% il rischio di cadere nella depressione post-partum. Ed al contrario, in assenza di questa possibilità, il rischio raddoppia in quanto subentra nelle mamme che desiderano provvedere autonomamente all’alimentazione del proprio figlio una vera e propria “ sindrome del fallimento”.

I casi di infanticidio nel 2011 sono stati 197, dati che non sono diminuiti nel prosieguo degli anni. Basti pensare che sono circa dai 45mila ai 70mila i casi di depressione post-partum trattati ogni anno e circa 3000 gli abbandoni dei neonati, di cui circa il 73% da parte di mamme italiane.

Tanti numeri, fredde statistiche che raccontano un disagio vecchio quanto il mondo. Senza voler fare uno studio sociologico circa le cause che vanno dalla disinformazione delle adolescenti agli inconvenienti della prostituzione, è indubbio ancora oggi che  la storia di Medea si rinnova in forma variegata e modernizzata.

Le mamme che ho incontrato mi hanno raccontato vicende diverse, quasi tutte accomunate dal comportamento silente di indifferenza del proprio marito o compagno circa la gestione delle vicende più perniciose della crescita dei figli.

Luciana M., mamma 40enne realizzata nel lavoro, di grado culturale elevato, mi narra di come si sia sentita sola improvvisamente dopo il parto, di aver compreso che da quel momento in poi tutto sarebbe stato diverso e che lei e soltanto lei avrebbe supportato il peso e la responsabilità di una vita da formare. Il vincolo imprescindibile col proprio esserino, il contatto costante e frequente dell’allattamento, la propria carnalità che si estende nell’altro. Le levatacce di notte, le assenze dal lavoro per la malattie delle bimbe che poi sono diventate due.

La sua solitudine si è estrinsecata spesso in un senso di soffocamento quando sentiva l’attaccamento morboso delle figlie, la loro dipendenza, il vivere con angoscia l’idea di ammalarsi e di non poter così accudire le piccole. Il ricordo di lei dietro un vetro, in una fredda e piovosa giornata d’inverno, ad attendere il ritorno di “lui” per condividere la paura di una febbre che non si abbassa.

Questa è la vita di Luciana M., divisa tra il lavoro, che cerca di fare scrupolosamente e con enorme dedizione per sopperire alle assenze a cui è costretta d’urgenza quando la chiamano dall’asilo, e la famiglia con la quale pure deve scontare i suoi “sensi di colpa” per la sua non presenza durante gli orari di lavoro… La sua maternità ed il suo ruolo di moglie è tutto imperniato su un “dovere” che viene attribuito senza incarico formale, tacito, legato imprescindibilmente al suo essere donna. Dove è normale che si rinunci a tutto e che si sia sempre a disposizione, provvedendo a tutti ed a tutto.

Diversa è la solitudine di  Maria G., mamma di un ragazzone di 24 anni autistico, gioia e dolore della sua esistenza. La gioia è dovuta al caldo affetto che lui le riserva, da eterno fanciullo, ma accompagnata purtroppo dal dolore dovuta all’ingestibilità del suo disturbo che disorienta, essendo imprevedibile, ed a volte, violento.

Maria pur avendo altri figli ed un marito, è sola nella gestione e nell’organizzazione di suo figlio, dalle turnazione dei vari badanti che si succedono alla cura capillare e costante del suo fisico e spazi che occupa. Racconta della scoperta della “diversità” del figlio, del primo impatto e scoramento che aveva visto la sua famiglia compatta ed unita in un primo momento. Col passare degli anni è subentrato – confida  Maria- una sorta di distacco, forse salvifico e di sopravvivenza, da parte di tutti che hanno iniziato a non interessarsi più al figlio ed a mostrare una certa indifferenza ed anche imbarazzo in presenza di ospiti a casa.

Lei è rimasta l’unico appiglio col mondo esterno di suo figlio col quale ha costituito una sorta di enclave madre- figlio, di continua ricerca di contatti ed abbracci e di comprensione muta in cui le leggi del tempo e della società nulla possono.

Alessia B., invece, è una donna cinquantenne, madre di due ragazzi, separata da più di dieci anni. La sua storia la accomuna a quella di moltissime donne che restano completamente sole, economicamente e moralmente, dopo la fine del matrimonio.

Alessia, sposatasi giovanissima con un eterno ragazzino, preso solo dal culto del suo corpo e di varie vanità, ha conosciuto presto la durezza di avere un marito assente e nevrotico. Dopo pochi anni dal matrimonio aveva preso ad essere violento con lei ed a non esserle d’ aiuto, né nel sostentamento economico, né in quello domestico. E tale è rimasto anche dopo la separazione, ricorrendo a mille bassezze, pur di non aiutarla e rifiutandosi di vedere perfino i figli per le poche volte che gli erano consentite. Per cui, si è barcamenata da sempre tra corse per portare i figli nei vari asili e mille lavori pur di consentirgli un educazione ed una vita dignitosa. Né ha potuto trovare un valido aiuto nella propria famiglia, essendo orfana di entrambi i genitori.

Tre storie di solitudini e che tali non dovrebbero essere ma che invece, oggi come oggi, rivestono il carattere dell’ordinarietà.

La società impone e dà per scontato che certi comportamenti si debbano tenere da parte delle madri, ma poco fa per alleviarle da gravosi problemi quando questi iniziano a profilarsi. Che cosa si fa per supportare le puerpere nell’inevitabile ed ormai acclarata depressione post partum a cui si va spesso  incontro? Quanto la famiglia comprende questi disagi e cerca di rendere il più naturale possibile l’accostamento alla maternità? E lo Stato e gli Enti locali che cosa predispongono efficacemente per consentire alle mamme sole di poter lavorare e provvedere al contempo ai propri figli? L’orientamento culturale è ancora quello di severa riprovazione nei confronti delle donne madri, da loro ci si aspetta tutto e sempre, non ci sono attenuanti. Si da per scontato che debba essere così, tanto da essere poco clementi nei confronti di chi rinuncia alla maternità, sia nel caso in cui essa sia in atto, sia nel caso di chi non desidera  realizzarla. Forse è proprio il caso di dire: dimmi che mamma sei e ti dirò che donna sei!!

Sabrina Maio

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tag: maternità, mamme, società, enti locali, depressione post-partum,solitudine, abbandono,famiglia,stato, previdenza

 


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