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Le banche italiane che fanno affari con l’Iran

Da Dave @Davide

L‘anno scorso gli Stati Uniti hanno stretto il loro embargo finanziario nei confronti dell’Iran. Già quattro anni fa le banche iraniane iniziarono a finire nel mirino dell’Office of Foreign Assets Control, quando Washington decise di colpire gli istituti finanziari suppostamente colpevoli di finanziare gruppi fondamentalisti in Medio Oriente (Hezbollah su tutti). Oggi, tuttavia, l’Iran continua ad accedere – seppure indirettamente – al mercato finanziario americano, servendosi delle operazioni tramite le banche estere che operano a Wall Street.

Tra questi istituti – rivelano Financial Times, l’agenzia Reuters e altri – ci sarebbero anche nomi italiani come Unicredit e Intesa San Paolo. Il secondo, in particolare, potrebbe presto superare i due milioni di dollari di multa imposti dal Dipartimento del Tesoro di Washington. Unicredit invece sarebbe “nei guai” per le operazioni di una sua controllata che acquisì nel 2005, la retail bank tedesca HVB. In entrambi i casi, le banche sono accusate di aver violato l’embargo imposto dagli States e aver intrattenuto relazioni finanziarie col paese degli ayatollah. Le banche che operano a Wall Street, infatti, sono tenute ad attenersi alla legislazione di Washington. A rivelare l’indiscrezione riguardante HVB è stata la stessa Unicredit, che alcune settimane fa ha ammesso l’indagine in corso da parte del Dipartimento di Giustizia e di quello del Tesoro.

Le banche italiane che fanno affari con l’Iran
Le transazioni coinvolte sarebbero del 2011, ma non si esclude che siano continuate nell’anno corrente, nonostante l’inasprimento dell’embargo americano. HVB e Intesa San Paolo, comunque, non sono gli unici istituti ad essere colpiti dalle indagini del Dipartimento del Tesoro e dei procuratori americani: il mese scorso il sovrintendente dello Stato di New York aveva minacciato di ritirare la licenza di operare a Wall Street a Standard Chartered, la prestigiosa banca britannica, se essa non avesse accettato di pagare una multa da 340 milioni di dollari; a giugno la banca olandese ING ha pagato la cifra record di 619 milioni di dollari, e il New York Times parla di un’implicazione di alcuni istituti cinesi nella vicenda.

Come viene sottolineato in un articolo di Reuters, l’attitudine verso le sanzioni americane degli azionisti dei grandi gruppi bancari sta rapidamente mutando. Se, infatti, fino a poco tempo prima la stessa Standard Chartered ribadiva con ostentata tranquillità di aver concluso affari con clienti provenienti dall’Iran, nel giro di pochi giorni il pagamento della multa ha cambiato la posizione della banca, che oggi non fa più la voce grossa e non dichiara la propria innocenza. Spesso i manager di questi istituti, che da anni discutono i rischi di queste operazioni .- fino ad un tempo recente non perfettamente regolamentate – preferiscono pagare le multe rispetto a vedersi tagliati fuori dal mercato finanziario a stelle e strisce. Ma non è tutto: nel caso di un’indagine, i dirigenti potrebbero addirittura finire in carcere.

Il “cambio di rotta” delle banche mondiali nei confronti della stretta degli Stati Uniti è presto spiegato: meglio pagare (e dividere la multa fra gli azionisti) che venire portati in tribunale. L’embargo finanziario americano è solo uno degli ultimi strumenti con cui Washington ha tentato dissuadere Tehran dai suoi intenti atomici e fare pressione per rendere libera la rotta del commercio internazionale di petrolio. La lista completa delle principali misure anti-iraniane si trova qui.


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