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[Le onde] 8. L'acqua cancella tutto

Creato il 06 maggio 2012 da Spaceoddity
Le onde
di Roberto Oddo
8. L'acqua cancella tutto
Con l'ombrello in mano, mi avvio per Kurfürstenstraße, opaca o appannata dalla sera che arriva. Il vento è freddo e la lettera è chiara: viene dal mio fratellastro, giù a Colonia, ormai dovrebbe avere, quanti?, sedici anni, e dice che papà sta morendo e che al funerale dello zio Andreas ha dato spettacolo di sé, facendo cadere tutti i libri dai leggii. Dice anche che avrebbe dovuto scrivermi Greta, sua madre, ma che non ne ha avuto la forza.
È a questo punto che il nostro balordo e misterioso amico riprova al cellulare dal quale non ha avuto risposta: La fine del mondo è vicina. Ma non faccio neanche la prova a richiamarlo, rileggo la lettera e la metto nella busta con quella di papà, buttando il secondo inutile involto. Compongo il numero Barbara, per sapere come vada, con Kostas, dico, con il poeta, ma il suo telefono non prende. Mi decido così a rispondere al messaggio di Sabine. Scusa se ho tardato, ma sono stato trattenuto da amici. Ci vediamo domani. P.S. Cosa indossi?
Non so quanto tempo passi, ma non ricevo né la risposta di Sabine, né un cenno da Barbara, né nuove catastrofiche profezie. Ora che sento il cielo precipitarsi sul mio ombrello, mi manca il mare. Mi manca il mare ed è stato all'improvviso: ho guardato l'ingresso di un negozio già chiuso, come se si nascondesse lì, ho pure cercato di penetrare il vetro acidato della porta, come quando ti metti una conchiglia nelle orecchie per appurare che non è vero, che il fruscio è ben altro, che il mare non è lì dentro, che dovrebbero ascoltare te per sentirne sciabordare la lentezza inesorabile e segreta. È quando voglio sprofondare che scopro di essere anfibio, affamato d'aria, e la mano grande come il mare che me ne priva. Quando riemergo, c'è il mare sopra di me, placido e intatto, come una clessidra, gocciola poco alla volta finché la terra non ce la fa più con l'acqua.
Ma tutto questo a Berlino si chiama pioggia. E bagna. Me ne accorgo giusto in tempo per ricevere la telefonata di Gil, fra poco è pronto a tavola, così volto per Schillerstraße, poi imbocco, di ritorno, una spettrale e sopita Wichmannstraße. Non voglio farli aspettare e non voglio bagnarmi oltre. Mi basta già avere appurato che non lascio più impronte, ma fasci di onde in fuga, che non ritornano, subito sommerse come sono dal passo che segue. Così, vengo braccato fino a casa dalla rapida rinuncia di una risacca, mentre il cielo si schiarisce intempestivo, ora che non c'è più giorno.
Una mano affusolata ed elegante tiene socchiuso il portone del mio palazzo e non so se rallegrarmi del non dover cercare le chiavi o tenere l'ombrello aperto fin quando non m'accerto di poter infine entrare. Da un'appendice di quelle dita adorne di anelli sembra fuoriuscire una voce, una voce che chiama senza speranze Ethel. Poi, deve aver sentito qualcosa, quella mano tira la porta a sé e, illuminato da una fredda luce, di quelle troppo forti, che vogliono ripararti dall'autunno, appare il volto della mia dirimpettaia, incorniciato dalla mia attenzione. Ovale come le foto dei morti su una tomba, ma troppo rosea e sorridente per ammonire in qualche modo sulla caducità della sua vita.
"Oh, sei di nuovo tu!", dice, come se conteggiasse i nostri incontri uno a uno, ma senza l'aria di compiacersene troppo. Non le rispondo, le faccio cenno di voler entrare. Lei si inchina galante e mi fa cenno di accomodarmi. E aggiunge qualcosa a bassa voce, di cui capisco solo che dovrei riferirlo a Ethel; salvo poi sentirla chiosare, scandendo bene le parole: "Mia figlia non ama Bartók." Lo sottolinea con l'aria di chi stia parlando di un amico comune e deve essere il mio volto indifferente a fale pensare che è meglio lasciarmi salire con la mia nuova incombenza. Una volta tanto, ricordo di lasciare il mio ombrello nel portaombrelli comune, sotto lo sguardo ironico della signora. Salgo per i gradini, uno a uno come se risalissi sulla spiaggia dopo un lungo bagno a mare e altrettanto fradicio. Non posso entrare così. Mi seggo per un attimo sulle scale: alla mia sinistra una musica stenta a partire e a definirsi, sembra che Ethel debba ancora decidersi se accordare di nuovo il suo violino giocattolo o suonare una musica che non ama. A destra, invece, i rumori della cena sembrano ormai definirsi in una rapida e ben nota catena di montaggio, silenziosa e sicura. Prendo per un attimo la mia unica busta, ormai più pesante d'acqua e di parole, ma la ripongo subito nella tasca interna della mia giacca insieme al malumore.
Ma, nell'alzarmi da quei due gradini, sento questa giornata pesarmi sulle spalle con l'ansia di un malato che non sappia resistere al letto che l'accoglierà. Con dei fazzoletti, asciugo le mie impronte e faccio finalmente ingresso a casa. Gil, Alejandro e Daria mi accolgono con un sorriso tra i fumi di una zuppa profumatissima, alla quale Gil ha dato un nome impronunciabile che non ricordo e sul quale mi sembra che inciampi anche la sua bella pronuncia spagnola. Si discute, si chiacchiera, la fine del mondo è definitivamente cacciata dietro la porta. Al termine del temporale, poi, l'acqua cancellerà tutto, anche le parole dall'ultima lettera, anche il funerale di Andreas, il pranzo con Barbara e l'audace Sabine col suo abitino a fiori troppo leggero. No, lei no, domani saremo insieme. Va bene, la sfumerà un poco, la metterà sullo sfondo.
Mi congedo dai convitati troppo presto per ammettere scuse, ma vengo perdonato come sempre dalla pronta pietà di Daria, nonostante lo sguardo deluso di Gil. Vorrei telefonare a papà; del resto, non saprei cosa dirgli ora, e non mi va che mi sentano parlare, è da una giornata che il cellulare mi porta fuori dalla mia vita di tutti i giorni. Domani andrò in istituto e incorrerò nel rischio di incontrare di nuovo qualcuno che mi dice della fine del mondo che arriva, tanto in dipartimento non si parla d'altro. Fino ad allora, voglio un po' di silenzio, accantonare le parole e gli sguardi di questa lunghissima giornata. Per adesso, mi limito a navigare un po' su internet, a selezionare la posta che conservo da quella che scarto, dimenticandomi di eliminarla. Spengo tutto e mi spoglio e mi distendo sulla coperta.
Tengo i miei sapori tutto in serbo per la mia insipida sordità. Guardo i miei libri sul comodino, tranquillizzato dalla mia inerzia, che impedisce di affrontare qualsiasi lettura. Non faccio in tempo a spegnere la luce, perché il sonno si avventa su di me lacerandomi i sogni. Tanto c'è l'acqua, ripulirà il mio sangue.

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