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Lettura diagonale dei Vangeli

Creato il 30 luglio 2012 da Malvino
Venerdì 27 luglio, su Il Fatto Quotidiano, Dario Fo si è prodotto in una lezioncina sul cristianesimo primitivo nel tentativo di dimostrare che nei Vangeli non v’è traccia di misoginia o di omofobia, né ve n’è traccia nelle prime comunità cristiane, almeno fino al IV secolo, quando «di fatto il cattolicesimo fu riconosciuto come religione di stato» e per «adattarsi alle tradizioni del mondo romano» alle donne fu precluso il ruolo sacerdotale, emarginandole e discriminandole. Da allora «per la Chiesa – sostiene Dario Fo – meglio gay che femmina». Lo dimostrerebbero «le pitture rinascimentali in cui si rappresenta l’ultima cena» e in cui l’apostolo Giovanni è ritratto in «quel gesto e quella postura che di certo toccavano alla Maddalena»: «pur di togliere di mezzo colei che per la tradizione popolare è sempre stata indicata come l’innamorata di Cristo s’è preferito sostituirla con un giovane seguace che rivela un atteggiamento ben poco virile». Dopo, solo molto dopo, «sistemato fuori campo il ruolo della donna, tocca agli omosessuali», e voilà l’omofobia.
Ricostruzione che non regge. Non bisogna aspettare il IV secolo perché alle donne sia imposta una condizione subalterna («L’uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna ad esser tratta dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo»I Cor 11, 9-10) o perché sia precluso loro il ruolo sacerdotale («Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge; se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea»I Cor 14, 34-35). Né bisogna aspettare che si chiuda il Rinascimento per trovare tracce di omofobia cristiana: basti rammentare i molti passi nelle Lettere di Paolo nei quali la condanna dell’omosessualità assume toni severissimi (Rom 1, 26-32; I Cor 6, 10; I Tm 1, 10) o scorrere il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani, che è del 1049, sorvolando su Agostino, Giovanni Crisostomo, Eustazio, Clemente Alessandrino, ecc. Sono note, daltra parte, le sanzioni che nel Levitico e nelle Ecclesiaste vengono prescritte a chi incorra in pratiche omosessuali ed è altrettanto nota la posizione di Gesù riguardo alla tradizione («Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge» Mt 5, 17): salva una prostituta dalla lapidazione raccomandandole di non peccare più, tutta qui la sua riforma. Né sul piano civile le cose vanno meglio di quanto vadano sul piano teologico, in questo arco temporale che Dario Fo ritiene neutro, se non tollerante, verso lomosessualità: nel VI secolo, con Giustiniano, agli omosessuali è inflitta la pena capitale; nel VII secolo, in Spagna, la pena è appena più mite (gli omosessuali vengono castrati)...
Non è la prima volta che Dario Fo piega la storia del cristianesimo alla tesi di un «Vangelo tradito», ignorando che Gesù è quel tale che non lascia alternative all’«ut unum sint» e non fa mistero del suo «qui non est mecum contra me est». Il richiamo alla primordiale purezza del messaggio evangelico è d’altronde una costante di tutti gli anticlericali che «non possono non dirsi cristiani» e che sono costretti a una lettura diagonale dei Vangeli. Non sorprende, dunque, che Dario Fo abbia dimenticato di citare il solo passo che nei Vangeli potrebbe dare un pur esile appiglio alla sua tesi: la guarigione del servo del centurione in Lc 7, 1-10.   

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