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Guarda più all'estetica e meno al contenuto il regista David Oelhoffen, che pare volersi servire del carisma di Viggo Mortensen più per coprire la polpa che manca alla sua sceneggiatura che per altre ragioni, nonostante la presenza dell'attore oltre ad essere un punto di riferimento per l'attenzione, disponga del physique du rôle adatto a tenere saldi insieme tensione e sguardo. E dal momento in cui la pellicola si ferma a raccontare la marcia verso una meta ancora ambigua, tra un insegnante solitario e un assassino in attesa di giudizio, entrambi silenziosi e distanti, nel temperamento come negli ideali, è obbligatoriamente nella capacità di mantenere salda la narrazione che "Loin Des Hommes" deve aggrapparsi. Considerando, inoltre, la decisione che coraggiosamente prende di posizionare la guerra civile al suo interno, solo come accenno di sfondo, e non come snodo determinante.
Se infatti lo scontro tra arabi e coloni francesi condizioni i due protagonisti nelle scelte da compiere, per Oelhoffen non diventa in nessun modo un centro alternativo per spostare l'attenzione dal rapporto umano che lentamente vuol costruire tra Daru e Mohamed. I due - costretti insieme dalla legge - si sopportano, si allontanano, si giudicano, a volte, ma nel profondo restano comunque uniti da uno spirito di umanità che, al contrario di quanto sta accadendo intorno, non accenna a volersi disperdere. Entrambi farebbero volentieri a meno l'uno dell'altro, eppure gli eventi politici che finiscono per travolgerli e metterli in pericolo, si fanno responsabili di limare quelle distanze che prima impedivano di dar luogo a confronti o scambi onesti.
Così, come era prevedibile, il graduale avvicinamento dei personaggi, la condivisione dei loro segreti, punti di vista e scheletri, oltre a favorire lo sviluppo di un'amicizia effettiva ed autentica, serve soprattutto ad imprimere a "Loin Des Hommes" quella solidità che stava cercando di montare e che, fino a quel momento, era sembrata in bilico o inarrivabile. Ritardata da un cammino senz'altro voluto dal suo regista, al quale però si rischiava di voltare le spalle se a fare da catalizzatore non ci fosse stato un Mortensen decisamente indispensabile, che pur di salvare la baracca entra in ogni centimetro nel suo Daru, cancellando se stesso.
L'adattamento personale che Oelhoffen aveva pensato per "L’Hôte" di Camus prende perciò vita con risultati più o meno vaghi. Quelli di una pellicola che non delude in quanto a globalità, ma che manca di guizzo, o mossa, in grado di regalargli futuro più lungo di quello di una proiezione.
Un futuro simile a quello che lei stessa, invece, si riserva di dare ai suoi ottimi protagonisti.
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