Magazine Talenti

Marocco – Fès

Da Elettra

(Il primo ricordo del Marocco, la sensazione completa e precisa di un momento, più delle strade, dei prezzi da contrattare, dei muli da scansare, dei bambini che vogliono venderti qualcosa, degli sguardi delle donne incrociati, degli spacciatori di hashish o presunti tali, il primo contatto col Marocco sarà per sempre l’ora della controra, distesa su un letto verde, tappeti e maioliche a terra; le finestre sono di legno intarsiato e dipinto, una litania – è venerdì, sarà una preghiera? – proviene da un altoparlante fuori e va avanti da più di un’ora scandendo perfettamente il ritmo lento di questo pomeriggio a Fès. Siamo nella medina, nelle sue viscere, ma le mura alte del riad schermano le voci e la città stessa).

IMG_34740302

 

Arriviamo a Fès alle 7 di sera, 37 gradi, strade polverose e devastate dall’aeroporto al centro. Solo uomini seduti a terra o sulle sedie di plastica dei tavolini, con lo sguardo immobile come loro rivolto alla strada, come piante rivolte al sole sui balconi. Asini che trasportano acqua, vecchi che conducono pecore. Poi una rotatoria e le palazzine color sabbia e basse lasciano spazio a ville colorate ed eleganti, circondate da mura alte e alberi rigogliosi. Poi sprazzi di occidente, nessuna donna al volante e poi l’ingresso della medina. Da qui proseguiamo a piedi in vie strette piene di negozi brutti e di persone, di uomini che in italiano mi dicono “ciao bella” e che rivolgono lo sguardo altrove quando io non smetto di fissarli dritto negli occhi.

Una volta chiusa la porta del riad il rumore si spegne e inizia a circolare il vento. Ci accompagna a cena un ragazzino che dimostra molti più degli anni che ha e che si gira solo due volte a controllare se non ci siamo persi nel dedalo di strade della medina. Cous cous, verdura, frutta: sapori interessanti ma non deliziosi come mi aspettavo. Torniamo da soli scansando i minuscoli gatti e gli spacciatori o presunti tali a goderci il fresco della terrazza. Mi accorgo delle colline intorno Fès solo ora e hanno lo stesso colore della pietra delle case, puntellate da gigantesche antenne paraboliche tutte orientate nella stessa direzione. Facciamo promesse e ci teniamo per mano mentre un vento tiepido ci accarezza e si porta via il fumo della mia sigaretta.

04
06
05

 

Il giorno dopo, piano, con calma, senza fretta: il caldo non è forte ma perché dobbiamo correre a rincorrere la città? Allora ciambelline e pane da intingere nel miele, tè alla menta e caffè ma tutto lentamente, chè è anche giorno di festa, prima di essere assaliti da ragazzini che vogliono portarci a vedere le concerie: li scansiamo, scansiamo tutti, ci mandando a fanculo in italiano perfetto, ma intanto troviamo le concerie infami da soli. La puzza è disgustosa, il processo di concia e tintura lo è ancora di più ma è ipnotico vedere queste vasche colorate, dove uomini che dall’alto sembrano piccoli piccoli, corrono lungo i bordi battendo ed immergendo solo la pelle degli animali che Allah permette di mangiare.
Continuiamo a camminare tra le botteghe che iniziano ad aprire in una medina fatta a posta per perdersi. E a pensarci è la prima volta che in un viaggio non abbiamo una mappa eppure riusciamo a trovare i posti in cui sapevamo di voler andare, come la Madrasa blu e verde e anche qui basta chiudere la porta per far cessare il rumore e sedersi a terra e basta. Continuiamo a perderci e a ritrovarci, ogni tanto copro le spalle, altre volte le scopro.

08
07
09

Dalla terrazza del riad vediamo dei puntini bianchi sulla collina: raggiungerli non è difficile, basta inerpicarsi verso una collina assolata e polverosa dalla quale subito dopo una curva discendono persone e di cui non saprò mai la provenienza. I puntini bianchi sono tombe, migliaia di tombe, sparse senza un ordine preciso o apparente e disseminate su tutta la collina. Un cimitero senza punti di riferimento quando io so che per trovare mia nonna devo attraversare il cancello e costeggiare due cappelle.
Il caldo è asfissiante e i giardini Jnan Sbil, come nella più banale delle metafore che si può fare in Marocco, sono l’oasi dove restiamo per un tempo indefinito mentre Aisha, corre lungo la fontana all’ombra e ride, con le sue gambe e le sue braccia ancora nude. Chissà se la madre, coperta tranne che per gli occhi, nel richiamarla come qualsiasi madre ansiose, ne invidia la libertà a tempo determinato.
Andiamo alla ricerca del Palazzo Reale e per farlo attraversiamo un’altra medina senza botteghe caratteristiche ma solo negozi di cibo e venditori ambulanti di uova. Mi sento in dovere di comprimi, le bambine mi rincorrono e mi salutano “Bonjour madame”, “Bonjour à vous”. Chiediamo informazioni e nessuno vuole soldi in cambio, sbuchiamo in una strada caotica e ancora più rovente. Quando lo troviamo l’imponenza delle porte dorate è accecante più del sole a picco su di noi: le tocchiamo tutte e sette ed esprimiamo un desiderio per volta, serrando gli occhi.
Non ricordo dove ho letto delle porte di Fès e dei desideri da esprimere alle sue porte, ma quest’agosto non avevo ancora visto cadere una stella.


Archiviato in:Parole

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazines