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molto forte, incredibilmente vicino

Creato il 18 giugno 2012 da Albertogallo

EXTREMELY LOUD AND INCREDIBLY CLOSE (Usa 2012)

locandina molto forte incredibilmente vicino

La 25esima ora, 11 settembre 2001, World Trade Center, La terra dell’abbondanza, Fahrenheit 9/11, United 93… E ora Molto forte, incredibilmente vicino. La filmografia sul “giorno più brutto” comincia a farsi decisamente corposa. Non molti, in verità, i capolavori (su tutti il film di Spike Lee, che comunque l’11 settembre lo affronta solo come pretesto per parlare del ben più grave fallimento esistenziale dei suoi protagonisti), ma in generale il livello è buono, e ognuna di queste pellicole ha i suoi non trascurabili motivi d’interesse.

Non fa eccezione Molto forte, incredibilmente vicino. Che, pur ispirato all’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer (quello di Ogni cosa è illuminata) e diretto da Stephen Daldry (Billy Elliot, The hours, The reader), è puro concentrato di Spielberg al 100%. Sarà che il protagonista è un bambino, sarà che c’è il sempre più bolso Tom Hanks, sarà che la sceneggiatura è del diabetico Eric Roth (quello di Forrest Gump, Munich e Il curioso caso di Benjamin Button, tanto per capirci), sarà per tutti questi e mille altri motivi (sì, anche le musiche di Alexandre Desplat, che è bravo, per carità, ma non proprio un innovatore), ma a me questo sembra proprio un film spielberghiano in tutto e per tutto.

Oskar Schell è un bambino intelligente e un po’ fobico, uno di quei dodicenni all’antica al limite del nerdismo appassionati di scienza e avventure ma terrorizzati dalla vita reale. Le cose peggiorano – e come avrebbe potuto essere altrimenti – quando suo papà Thomas perde la vita durante l’attacco alle Torri Gemelle. Per qualche mese Oskar, incazzato e depresso, smette quasi di vivere, fino al giorno in cui, per caso, tra le cose del babbo trova una misteriosa chiave in una busta con su scritto “Black”: che cosa aprirà quella chiave? Chi sarà questo/a Black? Perché Thomas aveva lasciato la chiave in un posto così nascosto? Inizia per il bambino l’avventura più importante, alla ricerca della memoria non solo del proprio papà ma anche di New York e, soprattutto, di se stesso, un viaggio iniziatico che porterà Oskar a superare il trauma del lutto e, forse, a diventare grande.

Ok, penso che avrete già intuito che si tratta di uno di quei film hollywoodiani zuccherosi e pieni di buoni sentimenti, confezionati estremamente bene ma niente di più. E fin qui siamo tutti d’accordo, c’è poco da fare: se vi piace il genere ne rimarrete incantati (favola moderna, racconto di formazione e tutta quella roba lì), altrimenti farete fatica a buttare giù interi minuti di lacrime e “quanto mi manca” e “dobbiamo trovare un senso a tutto ciò”, con in aggiunta il fattore 11 settembre a rendere il tutto ancora più… diabetico l’ho già detto? Vorrei però sottolineare due elementi d’interesse di questo film, magari non molto appariscenti ma secondo me piuttosto importanti:

1) Come già Ogni cosa è illuminata, questa pellicola (e, se ben ricordo, avendolo letto parecchio tempo fa, anche il romanzo d’origine) è tutto un collezionare, un raccogliere roba, un tramandare la memoria attraverso oggetti pop, materiali di scarto, cose di seconda mano: roba da far felice un semiotico, insomma, o uno di quei filosofi trendy da programma tv radicalchic. In Molto forte, incredibilmente vicino si assiste, come avrebbe forse notato Marshall McLuhan, a un perenne processo di creazione, tanto materiale quanto psicologico: il piccolo protagonista della storia costruisce il suo mondo – e, di conseguenza, la sua interpretazione del mondo – davanti ai nostri occhi, dando forma alle sue speranze, ai suoi timori e alle sue aspirazioni e facendoci partecipare al suo percorso di crescita interiore.

2) La cosa migliore dell’intera pellicola è forse l’interpretazione del vecchio, immenso, intramontabile Max von Sydow nella parte del nonno del bambino, che pur non dicendo una parola in tutto il film (o forse proprio per quello) riesce a essere assolutamente perfetto. Un silenzio, il suo, capace di esprimere più concetti e sentimenti di qualsiasi parola, e che avrebbe dovuto, in una stagione cinematografica che sul cinema muto ha costruito il suo successo, essere premiato con l’Oscar. Candidato, colui che fu l’attore feticcio di Ingmar Bergman ha perso contro il pur bravo e quasi altrettanto vecchio Christopher Plummer.

Alberto Gallo



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