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Orizzontale e verticale

Creato il 07 febbraio 2013 da Robomana
Orizzontale e verticale The Grandmaster è un filmone sulle arti marziali e tutta la filosofia che sta dietro quelle pratiche tanto fisiche quanto spirituali. Di norma, di un film del genere non me ne fregherebbe una mazza (ed è un po’ così anche ora che l’ho visto), ma bisogna ammettere che Wong Kar Wai questa volta sa quel che fa, tira fuori due ore esatte di film poderoso e a tratti straziante, magistralmente in bilico tra l’azione e il melodramma, magniloquente nello stile ed ellittico nella narrazione. Sembra di stare di fronte all’ennesimo sfoggio di tecnica e precisione: ci sono i primissimi piani e i particolari al rallentatore, ci sono nuvole di fumo in controluce e gocce d’acqua che cadono come macigni, ci sono i colori dosati col pantone e i movimenti di macchina morbidi e avvolgenti. Ma Wong non perde mai il controllo, confeziona il suo prodotto con eleganza fin eccessiva e manierata, ma la frase che fa dire all’inizio dal maestro Ip Ma, e cioè che il kung fu è fatto di due sole parole, orizzontale e verticale, se vai giù perdi, se stai in piedi vinci, questa frase così semplice e cinematografica la trasforma nell’idea guida del suo film dedicato a uomini straordinari alle prese con un’arte complessa, ma condannati ad avere un ruolo marginale nella Storia, destinati a vivere in un mondo chiuso e incapace di comunicare con l’esterno. La vicenda di The Grandmaster inizia negli anni ’30 e arriva fino ai ’60, passando per l’invasione di Hong Kong dei giapponesi, la guerra civile e la povertà. Tutto però avviene sopra le teste dei grandi maestri, nonostante la loro saggezza e abilità, il kung fu sembra un’inezia rispetto alle grandi vicende della Storia e con la sua pratica fisica e non così spirituale come ce l’hanno sempre raccontata (in fondo si tratta di mosse, di colpi, di velocità) nulla può contro la vera violenza che sconvolge gli uomini. La Storia c ‘è in The Grandmaster, influisce sulle vite dei personaggi ma non le prevarica. Al tempo stesso, il racconto non si fa modello di nulla, non arriva mai a essere simbolico o universale, e per questo trova una sua intima bellezza. Tant’ è che l’ultima parte del film, quando le sconfitte personali si palesano e il sistema di pensiero dell’arte marziale viene ricondotto a un mondo chiuso e destinato a morire, il film diventa bellissimo, commovente e poderoso, con il solo difetto di una musica d’accompagnamento che ricorda troppo le partiture di Morricone per Sergio Leone. A tratti Wong sfoggia anche la delicatezza dei movimenti di macchina di In the Mood for Love, per qualche secondo incede nei suoi ralenti pieni di pathos o nei particolari carichi di sentimento (un bottone, ad sempio): ma stavolta non si spinge troppo oltre. Stavolta ha scelto il genere e tra una battaglia e l’altra lascia che il film proceda per la sua strada, mentre la storia degli uomini procede per la propria, a una velocita’ superiore e per questo irraggiungibile.

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