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Pink Floyd: “The Endless River”, la fine di un’era

Creato il 28 novembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Sono passati tanti anni da quando qualcuno ha sentito dire che sarebbe uscito un disco dei Pink Floyd, al punto che, appena li si nomina, con la testa ci si catapulta immediatamente in un’altra epoca. Eppure, dal 1994, data di pubblicazione di “The Division Bell”, si sono trascinati dietro una scia sempre più sottile ma sempre percettibile nel tempo, senza mai scomparire del tutto. Vent’anni dopo, il 5 luglio 2014, la fantomatica notizia è trapelata da un tweet di Polly Samson (collaboratrice e moglie di David Gilmour) e due giorni dopo, il nome che nessuno si aspettava più di pronunciare è tornato sulla bocca di tutti gli appassionati di musica del mondo. “The Endless River”, l’ultimo LP della leggendaria band  britannica, vedrà la luce il 10 novembre dello stesso anno: un cerchio che si chiude, la fine di una storia talmente incredibile da sembrare surreale. Un avvenimento che genera sensazioni contrastanti, ma pur sempre un avvenimento importante, volto a lasciare un segno indelebile nell’era musicale attuale.

Dopo la dipartita di Richard Wright nel 2008, nessuno si sarebbe aspettato un loro ritorno. Quello che non tutti sapevano è che dal 1994 ad oggi i Pink Floyd custodivano del materiale inedito, registrato durante le sessioni in studio di Division Bell e mai pubblicato. Finalmente, nel dicembre 2013, David Gilmour e Nick Mason decidono di riportare alla luce “The Big Spliff” con un nuovo titolo. Grazie all’aiuto di una serie di musicisti e produttori danno vita a quello che sarà il loro ultimo album prima dello scioglimento definitivo. Meno di un anno dopo, “Il canto del cigno di Richard Wright” (così lo definisce Gilmour), nonché tributo al compianto tastierista, giunge finalmente alle nostre orecchie.

The Endless River si rivela esattamente il disco che tutti i fan si aspettavano. Per quanto ci si possa nascondere dietro l’opinione comune, lo si può definire onesto e maestoso, un’opera straordinaria a cui tuttavia è difficile dare un giudizio del tutto positivo. Tralasciando tutto ciò che sono stati in passato, i Pink Floyd  hanno dimostrato di essere ancora l’entità musicale che da sempre accompagna questo nome. Ciononostante, per quanto unico ed inimitabile il loro sound risulta incompleto. Sembrerà una definizione metafisica, ma quando una band arriva a comporre dei brani di una perfezione strabiliante, la mancanza di un qualsiasi dettaglio fa sì che questa svanisca, lasciando spazio ad un nuovo immaginario, che in questo caso, come già in passato, si è rivelato al di sotto delle aspettative dei fan.

Il lavoro di Gilmour e Mason, pur essendo consistente e più che mai evocativo, soffre la carenza dell’elemento che mancava già nei precedenti lavori. In un’ora e cinque minuti di continui e splendidi cambi di atmosfere, nessuna canzone riesce a far breccia nel cuore e nella mente dell’ascoltatore. Nel suo complesso risulta scorrevole, tanto che l’ascoltatore non riesce a distinguere i cambi tra una canzone e l’altra ed è davvero ricco di ottimo materiale. Manca però la concretezza: in 21 tracce, nessuna merita di essere davvero approfondita. Il risultato è senza dubbio piacevole, ma decisamente troppo astratto, tanto da risultare impersonale.

I fattori da analizzare sono molti, sia dal punto di vista artistico, sia per quanto riguarda gli aspetti che precedono la realizzazione di un album: The Endless River possiede prevalentemente sonorità ambient e la sua natura quasi del tutto strumentale non facilita di certo l’ascolto. Il numero delle tracce è eccessivo: l’idea di dividere ogni “capitolo” in una serie di short tracks rende la concezione dei pezzi ancora più confusa. Per quanto riguarda la sostanza, ovvero l’impatto delle canzoni sull’immaginario dell’ascoltatore, è ormai palese che l’assenza di Roger Waters lascia un vuoto incolmabile, percettibile nella quasi totale mancanza di struttura dei pezzi, ma soprattutto nell’identità della band e nella musica che ne scaturisce. Con quest’ultimo lavoro si ha l’ennesima prova che senza l’ideatore di The Wall i Pink Floyd rimangono senza un elemento chiave per la creazione e la produzione di un disco paragonabile ai loro precedenti successi. Nel frattempo, Waters ha dichiarato di non avere neanche l’intenzione di ascoltare l’ultima fatica degli ex colleghi.

Da un punto di vista oggettivo, The Endless River è un album che merita di essere ascoltato ma soprattutto vissuto, anche se è molto probabile che alla fine di questa odissea sonora un ascoltatore appassionato proverà un leggero senso di malinconia: chiunque conosca la loro musica  e la loro metamorfosi, sa bene che la magia che li ha sempre caratterizzati stava già svanendo vent’anni fa. Con ciò bisogna tenere a mente che oltre a contenere l’ultima testimonianza sonora di Richard Wright è un addio ufficiale e definitivo, tanto da sembrare un congedo vero e proprio a giudicare dal contenuto: una forte presenza sonora, ancora viva e vegeta nonostante tutto, che svanisce improvvisamente senza più tornare.

Con questo album, i Pink Floyd (o ciò che ne resta), hanno lasciato l’ennesimo segno indelebile nell’era musicale attuale. Un disco non memorabile, ma che sicuramente costituisce un elemento chiave nella loro discografia: un addio plateale, un’irruzione nel panorama musicale moderno per fare spazio ancora una volta al loro genio indiscutibile, nonché al loro smisurato estro creativo. Un disco che di certo non passerà alla storia, ma che di storia ne conclude una. Per alcuni, la più grande di tutte.

Tags:album,arte,articolo,david gilmour,musica,nick mason,pink floyd,roger waters,the endless river Next post

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