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Propositi d’acqua per l’avvenire

Creato il 19 agosto 2011 da Violentafiducia0

Quest’estate non ha mai fatto freddo e solo una volta è andata via la luce. Non ho avuto paura, sono ormai diversi mesi che riesco a dormire al buio senza soffocare. Senza luce sto bene. Senza il pensiero di dover mettere su la lavatrice, senza poter utilizzare a lungo il computer, senza dover tenere sempre il telefono acceso.
E poi ho scoperto che tutte le cose essenziali per sopravvivere stanno fuori dal frigorifero. Quello che va nel frigo non va nel corpo. Cerchiamo di tenere vivi ortaggi e salumi che vogliono marcire. Ci ho pensato, e ho capito che il frigorifero è il nostro egoismo che va a corrente continua.

La notte in cui ho dormito senza luce la cucina si è mezza allagata.

Mi sono sentita felice.

*

Ho avuto quindici anni, aveva smesso il buio. C’erano attorno solo fiori di finocchietto selvatico e terra sollevata dalle ruote dei motorini. I moscerini si infilavano nella bocca di quelli che ridevano. Io ridevo, avevo i moscerini pieni della mia bocca. Avevo il sole stampato sulle spalle, rosso, un sole che non mi faceva dormire. Ho speso quattordici euro per comprare il latte al mentolo di Bottega Verde, più un altro prodotto a scelta a metà prezzo, una promozione solo per oggi, allora prendo lo shampoo ai germi di grano che non rovina i capelli. I capelli li rovina la salsedine. La salsedine incapsula il corpo in una brina leggera finché l’acqua non ti lava o qualcuno non ti bacia. A me se qualcuno mi bacia vengono le ferite. Ferite grosse come cuori di buoi, ferite che non cicatrizzano, e sopra la salsedine le cuoce finché non ti viene da ridere per il dolore. Il problema è che sei vivo finché puoi sanguinare.

Io voglio che il mare mi conservi, che mi tenga a lungo. Voglio sentirmi persa di nuovo, priva di sostegno. Io voglio capire per quale motivo tra tutte le cose il mare. Voglio capire per quale motivo. Allora voglio lasciare questa spiaggia su cui cammino da sempre, e buttarmi in acqua e correre il rischio di non tornare. Perché un giorno di quest’estate mi è capitato di ritrovarmi dove non si tocca, e non sono morta perché una mano mi ha riportato a riva. Allora penso che voglio essere il corpo che tenta e la mano che riesce. Perché è banale ma l’ho capito, non puoi imparare a nuotare restando sulla riva. E io lo voglio affrontare questo mare.

Il problema coi posti che abiti è l’abitudine. Del resto hanno la stessa radice, mi chiedo come abbia fatto a non capirlo prima. L’abitudine è un velo che smette di farti vedere le cose. L’abitudine, quando sono a Roma, mi fa girare al Largo Beltramelli senza chiedermi se c’è un’altra strada per andare a fare la spesa.
Quando sono a casa l’abitudine è l’ovvio che detesto. Perché non mi sorprende che nelle giornate terse si veda il profilo della Calabria, non mi spaventa convivere con un vulcano che erutta, non mi vengono le vertigini se guardo le luci della costa ionica da un’altezza spropositata. La bellezza che non vedo più è casa mia. E a casa tua l’unica cosa che ti viene da dire è Scusate la polvere.
Ma d’altra parte, è l’abitudine che mi permette di notte di passare in cucina a bere senza accendere la luce e senza sbattere contro i mobili. L’abitudine è l’istinto che mi sopravvive, che mi fa ritrovare la strada del ritorno. Che mi spinge quando ho bisogno di essere sospinta, che mi trascina il corpo quando la mente ha perso i sensi. È la mano che mi riporta a riva, che mi salva, che mi ricorda chi sono.



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