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Racconti polacchi

Da Paolo Statuti

Tre racconti brevi polacchi 

(tratti dalla mia antologia di racconti polacchi „Viaggio sulla cima della notte”, Editori Riuniti, Roma 1988)

 

Kazimierz Brandys (1916-2000)

La controfigura

   La controfigura è una persona il cui mestiere è soprattutto quello di cadere. La controfigura cade da un balcone o da cavallo, ci sono controfigure specializzate nel lanciarsi in un fiume da un ponte, a bordo di una moto; ho sentito anche di una controfigura ben pagata che sapeva cadere da grandi, vecchi alberi.

   La controfigura si paga non soltanto perché decide di cadere, ma anzitutto perché poi continua a vivere. Oggi che la disparità delle retribuzioni non è stata ancora eliminata, si troverebbero molti candidati alle cadute dietro adeguato compenso, a prescindere dai risultati conseguibili. Tuttavia non sarebbero delle controfigure. La vera controfigura cade senza rischiare e nella posizione prevista: a braccia distese o con la faccia a terra, a seconda delle esigenze. Poi si rialza, si scuote la polvere di dosso e si mette a tavola. Per questo viene pagata.

   Le cadute dipendono dalla vita. Si cade da cavallo perché c’è una battaglia e una freccia ha trafitto un cavaliere; allora la controfigura scivola lentamente dalla sella e il cavallo la trascina sul terreno. Si rotola giù per la scarpata della ferrovia durante una fuga sui tetti di un treno in corsa, oppure da un pendio roccioso direttamente in bocca al lupo. Sono situazioni apprezzate dagli spettatori: quando la controfigura esegue sullo schermo il suo salto, la platea urla sempre. Oggi questo è molto importante. La platea urla incantata. Un buon jazz: la platea urla; un bel tocco di ragazza: la platea urla; un bel tiro: la platea urla. La platea urla anche per un buon colpo nella pancia.

  Per rendere possibile quest’urlo, a volte occorre lavorare molti mesi. La finzione si prepara con grande impiego di energie; sono necessari apparecchiature, cavi e riflettori, elettrotecnici e costumisti, persone che imitano il verso degli animali e macchinari per produrre la neve. Sono necessarie anche le controfigure. Tutto ciò non fa l’effetto del risultato finale. Per l’urlo dei contemporanei lavorano persone stanche, affannandosi tra gli attrezzi e le luci. Ma forse dentro di loro si cela un bisogno impellente di provocare quell’urlo, di estrarlo dalla sostanza grigia della vita. Non ho mai visto un assassino che uccide la vittima, ma so che ciò succede, che ciò è una realtà e che il mondo tollera questo stato di cose con un genere di consenso umilmente canzonatorio. Alla vista del sangue che sgorga o di un corpo preso a calci anch’io lancio un grido verso lo schermo. Amiamo gli scandali. Un colpo mortale, un nudo o il chiasso assordante di una batteria sono estremamente scandalosi perché rivelano la natura scandalosa della vita.

   Alcuni cineasti greci giravano un film sui contrabbandieri, in cui la scena culminante doveva essere un inseguimento a cavallo e la morte del capo (che cade, appunto, da cavallo). La parte del capo era interpretata da un noto attore che si intendeva di equitazione quanto bastava per reggersi in sella, ma non tanto da saper cadere da essa. Una caduta davvero emozionante richiede capacità che non tutti hanno. Saltare bene gli ostacoli è alla portata di ogni cavaliere mediocre, ruzzolare in modo perfetto sanno farlo soltanto pochi. Si misero alla ricerca di una controfigura.

   Si presentarono cinque giovani. Quattro, dopo le prove, furono ricoverati in ospedale, il quinto fu risparmiato. Oltre alle varie ammaccature e lesioni riportate, era una pena constatare che i malcapitati cadevano pure male. Cadevano veramente, cioè senza effetto e senza stile; mentre il pubblico esige l’arte del cadere, cioè una caduta che sia al tempo stesso fortuita e necessaria, e inoltre consapevolmente scelta da colui che cade. Soltanto allora il pubblico lancia un grido di gioia. La situazione ideale richiederebbe una certa consapevolezza anche da parte del cavallo. Ad esempio, ci sono cavalli che nell’attimo in cui il cavaliere cade sanno nitrire in modo impressionante. Lo spettatore allora può stare tranquillo che è successo tutto ciò che doveva succedere, e tutti hanno avuto la giusta consapevolezza. Vorrei osservare, infatti, che la consapevolezza è il massimo della pena richiesto dal pubblico. Non gli basta mai il solo dramma, desidera che i personaggi del dramma abbiano piena coscienza di esso. Nelle narrazioni ingenue e didascaliche lo scopo è raggiunto non quando il cattivo muore, ma quando ha capito di essere cattivo. Il pubblico esce soddisfatto: non si può soccombere meglio.

   Il regista interruppe le riprese, fu deciso di cercare una controfigura all’estero. Due settimane dopo arrivò un uomo tarchiato e taciturno di cerca sessant’anni, un vecchio cosacco del Don, di una famiglia di emigrati bianchi. I cineasti pensarono a un malinteso.

   La controfigura rivolse al regista alcune domande sulle circostanze in cui doveva svolgersi la caduta: in quale punto battere al testa in terra, fin dove lasciarsi trascinare con un piede nella staffa e come distendere le braccia. Le domande sonavano alquanto insolite, – alle controfigure non era mai richiesta una tale precisione, – mentre in questo caso l’augurio generale era soprattutto che il vecchietto non ci rimettesse l’osso del collo.

   Il regista suggerì di provare, ma la controfigura dichiarò che non ce n’era bisogno; pregò di accendere le luci, montò in sella e cominciò a cantare qualcosa al cavallo. Si lanciarono al galoppo.

   Non fu necessario ripetere la scena, perché la caduta si svolse precisamente come richiesto: il vecchietto batté la testa nel punto stabilito. Con lo stivale destro lasciò un solco nel terreno, e con la mano sinistra sfiorò i cespugli esattamente entro l’inquadratura della macchina da presa. Quando la polvere si fu posata, lo videro che conduceva il cavallo al box. Il giorno dopo tornò in aereo a Parigi.

   Era un’eccellente controfigura, con una storia interessante. Non ho in mente la biografia, ma proprio la «storia», il turbamento interiore e il suo risultato finale. Le biografie attestano le possibilità della vita, mentre le possibilità di un uomo sono attestate dalle conclusioni che egli ha tratto dalla sua biografia. Non mi fido dei curriculum troppo fantasiosi, ho il sospetto che un gran numero di fatti attenui l’efficacia del commento. Un vero curriculum è la storia del rapporto di un uomo con se stesso, non del rapporto dei fatti con l’uomo. I fatti sono inevitabili come materiale necessario a creare quel rapporto, ma non sono a sé stanti. Nella massa di eventi che hanno coinvolto la nostra generazione vedo una delle cause dell’ostruzione spirituale di cui in fin dei conti soffriamo tutti, nessuno escluso. Troppo è successo, troppo succede, l’azione trabocca sui margini  destinati alle postille.

   Prendeva 500 dollari a caduta. Ma questo dice poco. Ciò che meglio testimonia chi fosse quell’uomo è il non aver mai eseguito più di due cadute al mese. Raggiunto questo obiettivo, egli respingeva ogni proposta ed è rimasto celebre il suo rifiuto di gettarsi dalla quadriga lanciata a tutta velocità in Ben Hur per un compenso triplo; eppure era già la fine del mese.

   A tale proposito, vorrei attirare l’attenzione del lettore su un certo particolare. Dopo aver ascoltato il breve racconto su questa controfigura, tra dieci possibili ascoltatori probabilmente otto o nove vorrebbero vedere una sua acrobatica prestazione, e forse uno o due avrebbero voglia di conversare un po’ con lui. Già, la maggior parte dei contemporanei si interessa più alle qualifiche specialistiche e professionali di un uomo, che non alle sue qualità psichiche. Importa loro non come è, ma ciò che fa. Alla base di questo rapporto c’è forse la convinzione, nel subconscio, che le persone si differenzino poco tra loro, e che la loro psicologia e moralità individuale siano scarsamente identificabili nella psicologia e moralità media della società, e che ciò che davvero le differenzia siano le funzioni svolte, ovvero i gradini della gerarchia professionale.

   Ma nel caso di questa controfigura a me interessa assai più la sua capacità di autocontrollo, che la perfezione tecnica della caduta. Dirò di più: a me interessa poco in qual modo egli sia arrivato alla sua incredibile destrezza, mentre sarebbe appassionante poter rispondere alla domanda: come e a quale prezzo ha raggiunto la sua saggezza filosofica, che nel secolo della corsa al successo gli consentiva di rifiutare tutto ciò che non fosse realmente indispensabile? Questo semplicissimo modo di difendere la propria libertà è – purtroppo, come la maggior parte delle cose semplici – incredibilmente difficile a mettere in pratica.

  Suppongo che questa controfigura fosse un rappresentante di quella categoria di eletti che vengono al mondo con la sensazione di non doversi aspettare molto dalla vita. Sono mosche bianche nel campo della psicologia. Non appartengono né alla specie dei «debitori» (come ad esempio gli eroi della grande letteratura russa), né a quella dei «creditori», ovvero delle persone convinte che il mondo debba loro qualcosa. Ebbene no. Questa terza specie nasce in parità con il mondo, e non solo non esige niente, ma nemmeno si aspetta molto da esso.

   Non solo sapeva cadere da cavallo, ma riusciva anche a precipitare in un fiume dal ponte, a bordo di una moto. Per fare questo prendeva lo stesso compenso, ma esigeva un’ulteriore garanzia: dopo la caduta una barca a motore doveva soccorrerlo subito. Infatti, appena toccava l’acqua, egli andava immediatamente a fondo. Insomma: non sapeva nuotare.

 

Stanisław Dygat (1914-1978)

L’onomastico

   Il signor Kazimierz Druciany, persona importante e stimata, era di natura molto progressista. Detestava e disprezzava tutto ciò che è arretrato, superato, superstizioso.

   Qualunque cosa si possa pensare o dire in proposito, è certo che questo suo bernoccolo era assolutamente disinteressato e non era legato a nessun calcolo di opportunità esistenziale. Era un progressista e detestava l’arretratezza, questo è tutto.

   Si sforzava anche, come poteva, di combattere ogni manifestazione di regresso e di oscurantismo; a viso aperto e senza transigere si dichiarava contro gli anacronismi di qualunque tipo. Nell’ultimo anno si era convinto che l’onomastico è appunto un esempio particolarmente idiota di anacronismo, una specie di insulso e meschino culto della personalità e, quel che è peggio, legato alle superstizioni del misticismo cristiano.

   Aveva smesso di fare gli auguri agli amici e ai conoscenti nel giorno del loro santo; non accettava gli inviti, si rifiutò perfino, con grande coraggio, di mettere la sua firma sul biglietto di auguri per l’onomastico del suo direttore.

   Il 4 marzo, giorno dell’onomastico del signor Druciany, era una domenica e, come al solito, egli fece una passeggiatina, bevve il caffè al Club Internazionale e dette un’occhiata alla stampa, quindi mangiò un normalissimo pranzo al ristorante. Con un sorriso di commiserazione si disse anche: «E pensare che abitualmente in questo giorno c’erano certi pranzetti solenni, fiori, regalini, baci sulle guance e analoghe scemenze che avviliscono la dignità dell’uomo». Assai soddisfatto di sé tornò a casa con l’intenzione di passare il pomeriggio a leggere un libro. Pensò tuttavia che forse qualcuno, senza telefonare, sarebbe potuto passare a fargli gli auguri. In fin dei conti non c’era motivo di chiudere la porta in faccia a persone cortesi. Dirà: «Io per principio non riconosco alcun onomastico e vi prego molto di non farmi gli auguri. Ma un ospite lo accolgo sempre con piacere». E se capita un ospite non si può non offrirgli qualcosa. Era dell’avviso che le sue regole di vita dovessero essere seguite rigidamente e drasticamente, senza tuttavia comportarsi da villani verso il proprio ambiente. Decise quindi di passare al supermercato e comprare per ogni evenienza un quarto di vodka e qualcosa per uno spuntino. Entrando però si rese conto che, grosso modo, sarebbero dovute venire  circa sei, sette persone, e pensò fosse meglio prenderne mezzo litro.

   Tornato a casa, travasò la vodka in una caraffa e cominciò a preparare le tartine. Mise sul tavolo una bella tovaglia e vi sistemò ogni cosa, quindi si sdraiò sul letto e cominciò a leggere. Un’ora dopo si meravigliò alquanto che nessuno gli avesse ancora telefonato. Allora pensò che molto probabilmente il telefono era guasto, ma il telefono non era guasto. Era sceso il crepuscolo. Alla radio l’orchestra Costelanetz suonava Meditation dall’opera Thaïs di Massenet. Posò il libro e si mise a riflettere. Qualcuno stava salendo le scale, ma non si fermò al suo piano, andò oltre. Il signor Kazimierz senza sapere perché si sentiva triste e malinconico. Guardò per un po’ il telefono e concluse che non suonava per qualche particolare e maligno puntiglio. Alzò il ricevitore e fece un numero.

   «Mietek, sei tu? Non faresti un salto da me? Ci facciamo un bicchierino… Sono un po’ giù e non troppo… Ah, vai a giocare a bridge? Beh, sarà per un’altra volta…»

   «Non si è ricordato nemmeno» – pensò il signor Kazimierz e sorrise amaramente.

   Si mise a camminare per la stanza, si fermò vicino al tavolo, si versò una vodka e svuotò il bicchiere. Si sentì rianimato, ma anche più avvilito. D’un tratto si ricordò dei suoi onomastici quando era bambino. Era pieno di ragazzine e ragazzini, cacao con la panna, giocattoli, lui, il più importante, al primo posto. Di continuo arrivavano zii e zie coi regali, e su tutti emergeva lo zio Stefan Otwinowski, rispettabile e spiritoso (famoso per le sue facezie).

   Mandò giù un altro bicchierino, poi un terzo, un quarto, un quinto…

   Alle dieci di sera gli abitanti del quartiere Mokotów videro con meraviglia il signor Kazimierz Druciany, da tutti così stimato, che se ne andava barcollando per la strada. Offendeva anche i passanti chiamandoli ragazzacci e ladroni, e minacciava di picchiare chiunque avesse osato oltraggiare il suo patrono, san Kazimierz. La guardia che gli aveva chiesto i documenti sorrise con indulgenza:

   – Ah – disse – Kazimierz. Sì, sì. Capisco l’onomastico, ma lei ne ha un po’ abusato. Anch’io del resto mi chiamo Kazimierz…

   – Ah – gridò il signor Kazimierz e piangendo si gettò tra le braccia della guardia – tanti auguri. Ah, forse lei, come fratello nel patrono comune rispetterà in me l’uomo e l’individuo e mi farà gli auguri? L’infanzia non c’è più e nemmeno lo zio Stefan.

   – Tanti auguri – disse la guardia. Lo accompagnò a casa e lo mise a letto.

 

 

 Kazimierz Orłoś (1935 – …….)

 

Il maestro di musica

 

   A quel tempo vivevo in una misera abitazione. Le finestre della mia stanzetta in un palazzo alla periferia davano su un cortile a forma di pozzo. Ogni voce dal basso, dalle finestre socchiuse – un grido o il pianto di un bambino, lo schiamazzo di donne litigiose, una radio accesa, perfino una conversazione a bassa voce – si sentiva chiaramente, come se mi trovassi alle spalle delle persone nei loro appartamenti e ascoltassi senza sosta. Il tintinnio delle bottiglie del latte, trasportate su un carrettino di lamiera da uno sciancato, mi svegliava alle cinque di mattina. Il canto del carbonaio ubriaco, che occupava l’appartamento al pianterreno, mi strappava al sonno a mezzanotte. Le risatine del figlio deficiente del portiere – un ragazzo grasso che se ne stava tutto il giorno in cortile – le sentivo a mezzogiorno e la sera. Ero tormentato da tutti quei rumori. Ero al limite della sopportazione.

   Il vecchio abitava accanto. Adesso lo so, ma allora, quando già studente avevo preso in affitto quel buco di stanza con le finestre che davano sul cortile, non gli avevo prestato attenzione. Soltanto quella soffocante domenica, mentre sgobbavo su un grosso manuale di fisica, rompendomi il cervello con la teoria dei quanti, e quello cominciò a suonare dietro la parete (mi sembrava di essere in una sala vuota in cui qualcuno tagliasse un vetro col diamante), pensai che molto probabilmente doveva essere quell’uomo incurvato che a volte incontravo sulle scale, quando, ansimante, si fermava per un attimo al mezzanino.

   Da dietro la parete sentivo chiaramente il concerto per violino. Dovevo ascoltare ininterrottamente e fino all’ultima nota tutti i fraseggi della Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria di Ogiński? Suonava motivi sentimentali, noiosi da ascoltare come un lungo discorso o una poesia imparata a memoria. I miei quanti erano già andati a farsi benedire, per giunta dietro la finestra i bambini facevano chiasso, le donne schiamazzavano nelle cucine, il carbonaio ubriaco cantava una canzone da ubriaconi.

   Non resistetti e battei più volte il pugno sulla parete. Ma servì a ben poco. Era forse un po’ sordo? Il tenue suono fluiva incessantemente da dietro la parete, come una voce lamentevole, come il canto del muezzin che invita alla preghiera.

   Aspettai mezz’ora, poi uscii sul pianerottolo e bussai alla porta del vicino. Ricordo che il pianto dello strumento cessò di colpo, come troncato. Sentii lo strascichio delle pantofole, poi quel vecchio chiese sottovoce: – Chi è?

   – Il suo vicino – risposi seccamente.

   La porta fermata con la catena si aprì di uno spiraglio. Fiutai un odore di umido, di appartamento non arieggiato, di muffa mista a un odore di naftalina. Il vecchio, la cui faccia pallida e non rasata scorsi nello spiraglio, mi fissava incuriosito con gli occhi piantati a un palmo dal mio naso. Le sue dita sottili stringevano il battente della porta socchiusa. Notai delle macchie brune sulla pella chiara.

   – Signore – dissi bruscamente – la smetta di grattare! Mi scoppia la testa!

   Mi guardò per un istante, e poi disse con un filo di voce:

   – Sì, certo. Mi scusi. – E chiuse la porta.

   E non suonò più, né in quella soffocante domenica, né in nessun’altra. Molto probabilmente mi sarei dimenticato di lui, se un giorno d’autunno non avessi deciso di fare una passeggiata fuori città. Dalla strada asfaltata girai verso i campi e presi un sentiero che portava a un bosco lontano. Là lo vidi. Dapprima mi sembrò un altro (un’apparizione, un uomo non di questo mondo). Ma era lui di sicuro: la stessa figura incurvata, la faccia pallida e non rasata, gli occhi scuri. Stava seduto su una seggiolina pieghevole di fronte a un improvvisato leggio di rametti, sul quale aveva posato il foglio di musica. Suonava al violino quella stessa Leggenda di Wieniawski, o era forse L’addio alla patria? Mi fermai a cento passi da lui, poi andai più vicino. Ascoltavo come suonava e come la voce lamentevole del violino si levava sul campo deserto. Guardavo il margine del bosco, l’azzurro del cielo, gli uccelli neri (di sicuro una stormo di cornacchie) che volteggiavano sulle stoppie. Quell’uomo suonava piegato sul leggio di rametti, con accanimento, assente, come se vedesse il mondo intero nei punti neri delle note. Il violino piangeva sconsolato. Non c’era nessuno.

   Restai lì per un po’, quindi lentamente, senza voltarmi, ripresi a camminare in direzione della strada asfaltata e della nostra casa, nella quale lo schiamazzo delle donne, le grida dei bambini e il canto del carbonaio ubriaco era tutto ciò che potevo sempre sentire.

 

(Versione di Paolo Statuti) 

(C) by Paolo Statuti



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