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Recensione "Nudo tra i lupi" di Bruno Apitz

Creato il 23 maggio 2013 da Alessandraz @RedazioneDiario
Pubblicato da Simona Postiglione Sulla vetta dell’Ettersberg gli alberi gocciolavano per l’umidità, innalzandosi immobili nel silenzio che avvolgeva il bosco e lo isolava dal paesaggio circostante. Le foglie invernali, spente e senza vita, marcivano al suolo luccicanti d’acqua. Lassù la primavera esitava ad arrivare. Dei cartelli posti fra gli alberi sembravano metterla in guardia. Comando del campo di concentramento di Buchenwald. Attenzione. Pericolo di morte! Si sparerà su chiunque oltrepassi questo punto! E, sotto, il simbolo del teschio con le due ossa incrociate.
Incipit di Nudo tra i lupi di Bruno Apitz
Recensione Autore: Bruno Apitz
Titolo: Nudo tra i lupi
Titolo Originale: Nacht unter Wölfen
Traduttore: Agnese Silvestri Giorgi 
Editore: Longanesi
Collana: La Gaia scienza
Pagine: 461
Prezzo: € 18, 60
Data Pubblicazione: 17 gennaio 2013
Trama: Campo di concentramento di Buchenwald, marzo 1945. Mentre gli americani sono arrivati a Remagen, un nuovo treno di deportati è giunto al lager. Tra essi Zacharias Jankowski, un ebreo polacco che porta con sé furtivamente una valigia. Alcuni detenuti lo aiutano a nasconderla, ma restano esterrefatti quando scoprono che al suo interno si trova un bambino di circa tre anni. Che fare: denunciarne la presenza o proteggerlo? Di certo la presenza del bimbo, l’unico in quel luogo di desolazione, mette a rischio l’organizzazione internazionale di resistenza attiva clandestinamente nel lager, dove l’obiettivo comune è cercare di sopravvivere tra la disperazione e la speranza, restare uomini nonostante tutto: l’orrore dei forni crematori, le torture, le marce della morte, i delatori, la solitudine, il lento annientamento. Fino all’11 aprile, quando i 21.000 prigionieri superstiti, con le ultime SS ormai in fuga, varcano i cancelli della libertà. La nuova edizione italiana di questo romanzo autobiografico, che vide l’autore testimone e protagonista degli eventi narrati, ripristina – sulla scorta della recentissima edizione apparsa in Germania – i brani che poco prima della pubblicazione Apitz decise di eliminare o modificare, restituendo il testo così come fu scritto di getto, all’indomani della liberazione del lager.
RECENSIONE Impossibile parlare di questo romanzo senza spendere qualche parola sull’autore, Bruno Apitz, se non altro perché il racconto è frutto della sua testimonianza d’internato nel campo di concentramento di Buchenwald, teatro della storia. Apitz nacque nel 1900 a Lipsia-Vollmarksdorf; si avvicinò alla politica da giovanissimo, entrando nella Gioventù operaia socialista tedesca, conobbe la prigione a soli diciassette anni per avere parlato durante uno sciopero contro il proseguimento della guerra — la prima — e venne in seguito accusato di «tentato tradimento della patria» dal Tribunale del Reich di Lipsia. Tra il 1919 e il 1923, pubblicò le prime poesie e due racconti di critica sociale. Il nostro autore era un giovane caparbio, profondamente convinto delle sue idee, che trovarono appoggio nel Partito comunista tedesco e nella Lega degli scrittori proletario-rivoluzionari. Con un curriculum del genere, non stupisce che sia internato per la prima volta nel 1933 nel campo di concentramento di Colditz e Sachsenburg, dopodiché la sua esperienza di deportato proseguirà nel campo di Buchenwald, come «criminale politico recidivo».
Recensione Resterà lì fino alla liberazione da parte delle truppe americane nella primavera del 1945. Gli episodi vissuti — da lui direttamente o dai suoi compagni — hanno dato vita a questo romanzo autobiografico, che è stato pubblicato per la prima volta nel 1958 e del quale non esiste una sola versione. Subito dopo la liberazione dal campo, Apitz scrisse, infatti, alcuni resoconti tesi a documentare i misfatti, a dare una testimonianza delle sofferenze dei prigionieri, puntando il dito contro i dirigenti delle SS responsabili, salvo poi apportare delle modifiche, mitigando alcune affermazioni. C’è da dire che nel frattempo — com’è naturale — l’autore ha cercato di elaborare i tragici eventi della prigionia e il trauma del sopravvissuto che lo accomuna con chiunque abbia vissuto un’esperienza simile.

Quella che ho letto è la nuova edizione italiana pubblicata da Longanesi, che riporta i brani eliminati da Apitz nella prima pubblicazione, restituendo il testo così come fu scritto di getto, all’indomani della liberazione del lager. Una testimonianza sincera e una lettura scorrevole, che non è appesantita dalle molte descrizioni dell’organizzazione interna del campo.
Leggiamo dell’arrivo dei prigionieri, ammassati come animali nei vagoni merce, senza acqua né cibo, costretti a convivere con i loro escrementi e con i cadaveri di chi non sopravviveva al viaggio. Le formalità dell’accettazione erano condotte a suon di maltrattamenti, sino all’arrivo vero e proprio nel lager, dopo una marcia estenuante durata ore, spronata dai calci dei fucili delle SS. L’impressione dell’autore entrando nel lager fu di una porta spalancata: 

alle spalle il mondo, dentro un paesaggio che non aveva più nulla a che fare con il mondo e l’umanità.

Apitz racconta, attraverso i suoi personaggi, fatti e sensazioni che lui stesso ha provato, come la descrizione degli uomini appesi agli alberi del campo e i loro lamenti, «anticamera di un regno di morte e decomposizione.» Restavano appesi per ore, le mani legate dietro la schiena, le braccia tirate verso l’alto, finché la corda non veniva tagliata. Allora i corpi cadevano a terra come sacchi e restavano immobili, fino a quando i calci e le manganellate del capo blocco non li costringevano ad alzarsi. Molti non si rialzavano più. Una forma di punizione — tra le tante — per avere anche solo dato nell’occhio durante il lavoro.

Buchenwald fu un campo di lavoro, dalla sua costruzione e fino alla fine: baracche su baracche, piene oltre misura di prigionieri di ogni nazionalità, non solo ebrei. Fango, freddo, fame, torture fisiche e psicologiche, malattia, morte, e le notti troppo brevi nei giacigli sporchi, brulicanti di pulci. Nessuno dei prigionieri sapeva se sarebbe sopravvissuto. Se qualche disperato tentava la fuga, il suo gesto era fatto pagare a tutti, costringendoli a restare fermi sul posto per ore interminabili, immobili fino all’ultimo respiro. Gli stessi prigionieri si occupavano di scaricare i cadaveri che arrivavano a fiotti, soprattutto a causa dei numerosi convogli provenienti dai campi evacuati, come Auschwitz; ogni giorno, da trecento a cinquecento corpi, ammucchiati nelle pose più grottesche, erano destinati tutti a bruciare nel forno crematorio del campo dopo essere stati denudati e privati di qualsiasi parte di valore, capsule d’oro comprese. La fame continua e la totale mancanza di beni mostravano gli istinti più infimi della specie umana, soprattutto nel Campo Piccolo, un conglomerato di blocchi all’interno del lager di Buchenwald, costituito da vecchie stalle per cavalli, circondate da una doppia recinzione di filo spinato. «Uomini disumanizzati dal terrore nazista, dalle paure e dalle torture della loro prigionia.»


Uomini che, nonostante tutto, non hanno esitato a schierarsi compatti per nascondere e proteggere — fino alla liberazione finale — un bambino, introdotto furtivamente in una valigia da un ebreo polacco. La sua presenza rappresentava un grave pericolo per l’organizzazione internazionale di resistenza attiva che si muoveva clandestinamente nel lager. Fra i prigionieri politici vigeva la legge della cospirazione, che li univa tutti con i legami di una fiducia incondizionata. Si somigliavano tutti nei loro stracci sporchi, con il distintivo rosso, il numero sul petto e la testa rasata e si proteggevano a vicenda, impedendo che fosse scoperto quanto vi era di più segreto. Cos’era per loro quel bambino sconosciuto? Liberarsi della sua presenza avrebbe garantito la sicurezza di tutti, lì dove l’obiettivo comune era quello di cercare di sopravvivere alla disperazione.

Ma ognuno di loro lottava ogni giorno per mantenere viva la sua integrità di essere umano, nonostante la solitudine e il lento annientamento, e nasconderlo a rischio della propria vita, proteggerlo, era un barlume di speranza cui aggrapparsi: la continuità della vita fuori da quel recinto.

«Ecco qui il nostro piccolo ebreo polacco...Che significa bambino polacco? Un bambino è di tutto il mondo. Bisogna amarlo e proteggerlo.»
Resistere alle torture più crudeli, non tradire i compagni e l’organizzazione, consapevoli che la liberazione era alle porte. Resistere.
«Simile a un guscio di noce il bimbo oscillava sopra le teste; passò attraverso lo stretto cancello e poi la fiumana, che niente più avrebbe potuto trattenere, lo trascinò con sé sulle sue onde ormai libere».
Recensione Bruno Apitz (Lipsia, 1900-Berlino, 1979) fu autore di romanzi, racconti e opere teatrali. Iscrittosi al Partito comunista nel 1927, con l’avvento di Hitler venne più volte arrestato e infine internato nel campo di concentramento di Buchenwald. Nel dopoguerra scrisse sceneggiature per la principale compagnia cinematografica e per la radio di Berlino Est, dove visse dal 1952. Lasciato ogni incarico connesso alla politica attiva, nella seconda metà degli anni Cinquanta scrisse Nudo tra i lupi, il romanzo sulla propria esperienza a Buchenwald; pubblicato nel 1958, divenne a sorpresa un successo internazionale, tradotto in trenta lingue. Nel 1963 ne fu tratto un film per la regia di Frank Beyer.

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