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Schiavi moderni: la Coca Cola e le arance della miseria

Creato il 15 marzo 2012 da Scienziatodelcibo @scienziatodelci

L'inchiesta scandalo in Calabria del The Ecologist: arance a 4 soldi, miseria e schiavismo

The Ecologist viaggia in Calabria nel Sud Italia: sostiene che la raccolta delle arance si avvale di migranti africani pagati con salari da fame che vivono in condizioni squallide.

E’ polemica in questi giorni per la decisione della Coca-Cola Corporation di disdire i contratti di fornitura delle arance con i produttori calabresi dopo l’inchiesta pubblicata dal quotidiano The Ecologist a firma di Andrew Wasley: News investigation Coca Cola challenged over orange harvest linked to ‘exploitation and squalor’.

Le grandi aziende dell’alimentazione, tra cui la Coca-Cola, usano per i loro prodotti le arance raccolte da immigrati sfruttati.

Gruppi di parlamentari ed esponenti del governo, dei sindacati e della Coldiretti calabrese hanno aperto un tavolo di emergenza per porre rimedio all’ennesimo scandalo che come sempre mette in ginocchio l’agricoltura locale. Alla fine la Coca Cola ha smentito la disdetta dei contratti e, anzi, si impegnerà a formulare contratti pluriennali che possano migliorare le condizioni di degrado. Insomma chiacchiere o meno, ci voleva l’inchiesta del The Ecologist per far muovere qualcuno e riaccendere i riflettori sulla piana di Gioia Tauro. L’inchiesta è stata tradotta e pubblicata in Italia dall’ottimo settimanale “Internazionale”, ed ora io provo a fare una sintesi.

Probabilmente questo è il posto peggiore di tutta l’Europa occidentale. Un accampamento di fortuna con una strada rumorosa da un lato, la ferrovia dall’altro e un fiume stagnante che scorre non lontano. Il campo è un ammasso di tende tirate su alla bell’e meglio con una serie di teloni, a cui si aggiungono un paio di case abbandonate e qualche baracca. Oltre la recinzione di fil di ferro si vedono fuochi ardere tra i mucchi di immondizia: latte vuote formato famiglia di olio d’oliva, bottiglie di plastica, giornali, avanzi di cibo e altri rifiuti non meglio identificabili. Il fumo brucia gli occhi. Al tramonto decine di immigrati si danno da fare: chi cucina, chi taglia la legna, chi urla, chi cerca di scaldarsi. Figure che si stagliano contro la luce delle fiamme.

In questo squallido accampamento, dove secondo le organizzazioni umanitarie le condizioni sono simili a quelle dei campi profughi delle zone di guerra o perfino peggiori, vivono almeno duecento lavoratori stagionali. Sono arrivati da tutta l’Africa: dal Ghana, dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio. Ogni inverno almeno duemila persone arrivano nella località agricola di Rosarno, in Calabria, per guadagnarsi da vivere raccogliendo le arance, che finiranno sui banchi dei mercati e dei supermercati o verranno trasformate in succo o in concentrato destinato alla produzione di bevande analcoliche. Prodotti ottenuti dallo sfruttamento di chi si trova alla base della filiera produttiva.

Schiavi moderni: la Coca Cola e le arance della miseria
Quasi tutti fanno la spola tra le principali regioni agricole (Puglia, Campania, Sicilia, Calabria e Basilicata) per trovare un lavoro a cottimo da svolgere durante le raccolte stagionali delle arance, dei limoni, dei kiwi, delle olive, dei pomodori e dei meloni. Attualmente in Italia ci sono circa 50mila migranti, soprattutto africani ma anche dell’Europa dell’est, che vivono in questo modo.

Per questo è nato un movimento che chiede alle multinazionali dell’alimentazione che si riforniscono in questa zona di contribuire a risolvere il problema. Coldiretti, la più importante associazione italiana degli agricoltori, afferma di aver scritto a diverse aziende (tra cui la Coca-Cola, che produce l’aranciata Fanta), denunciando il prezzo iniquo dei concentrati d’arancia, e la situazione di forte disagio che ne deriva.

Di solito per una giornata di lavoro negli aranceti della Calabria si guadagnano venticinque euro. La tariffa varia a seconda dell’azienda e del prezzo delle arance sul mercato. I braccianti sono spesso reclutati da caporali che lavorano per i proprietari dei campi, che sfruttano la grande disponibilità di manodopera a basso costo. I caporali, sia italiani sia africani, chiedono ai lavoratori immigrati dei soldi (si fanno pagare dai 2,5 ai cinque euro per trasportare gli immigrati avanti e indietro dal campo) e a volte trattengono una parte dalle paghe versate dai coltivatori.

“Venticinque euro è il minimo salariale: è una paga misera, ma questa è un’economia misera. C’è miseria, non sfruttamento”. Il signor Callello, che appartiene a una cooperativa di otto o nove agricoltori e sta cercando di convertire i suoi campi all’agricoltura biologica, dà la colpa all’economia della coltivazione delle arance e al funzionamento della filiera produttiva. Dice che il prezzo di mercato è sceso al di sotto del costo di produzione: “Per le arance industriali (usate per i concentrati) mi danno sette centesimi al chilo, mentre pago gli operai otto centesimi al chilo: è paradossale. In fondo alla catena di distribuzione c’è una guerra tra poveri”. Callello vende le sue arance a uno stabilimento del posto, che a sua volta rivende la merce a fabbriche più grandi dove la frutta viene lavorata per importanti aziende alimentari e produttori di bevande.

A Rosarno l’organizzazione non governativa Emergency mette a disposizione due volte alla settimana un ambulatorio mobile: un pulmino con un ambiente per le visite e le strumentazioni per effettuare piccoli interventi di base. Angelo Moccia, direttore dell’ambulatorio, sostiene che qui le condizioni sono peggiori di quelle che ha osservato in Congo. Andrea Freda, l’infermiere del progetto, aggiunge: “La situazione non è molto diversa da quella dell’Afghanistan”.

Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, vive sotto scorta: questa è terra di mafia. La donna ci racconta del progetto di ampliamento dei campi, per aumentare il numero dei posti letto fino a centocinquanta, e ammette che la condizione dei migranti è scandalosa. “Il problema principale riguarda l’inclusione: gli immigrati si fermano solo per qualche mese, arrivano e se ne vanno”.

L’Italia è un importante produttore di agrumi: vengono raccolte circa 3,6 milioni di tonnellate di agrumi su un’area di circa 170mila ettari. La Calabria è la seconda zona di coltivazione delle arance, e nel 2009 la sua produzione ha superato le 870mila tonnellate. Sono frutti destinati in gran parte alla trasformazione industriale, ideale per succhi e concentrati.

“Questa zona si trova di fronte a un grave problema: le tariffe pagate dalle grandi ditte per il succo non sono eque”, spiega Molinaro (Coldiretti Calabria). “E questo costringe i piccoli stabilimenti alimentari della zona, quelli che producono il concentrato, a chiedere prezzi bassissimi per le materie prime”. Gli agricoltori ammettono che ricorrono alla manodopera a buon mercato degli immigrati proprio per questo: “I giovani italiani non vogliono lavorare nei campi. L’unica soluzione è usare i braccianti immigrati”, dice Callello. Molinaro è convinto che sia stata questa situazione a scatenare le violenze del 2010. “Questo meccanismo contorto è la causa degli scontri di due anni fa. I mezzi d’informazione stranieri hanno parlato di razzismo, di tensioni sociali, ma non dei motivi reali”.

In Italia la Coca-Cola promuove la sua Fanta come una bevanda prodotta “al cento per cento” con arance italiane. In una dichiarazione dettagliata dell’azienda si legge: “Gran parte del succo che acquistiamo in quella zona viene usato per i prodotti destinati al mercato italiano. Il nostro fornitore è un impianto di produzione di succo che si procura quasi tutta la materia prima da consorzi o cooperative che si riforniscono da coltivatori diversi. Anche se è impossibile per noi controllare tutti i consorzi e tutte le aziende agricole, il nostro fornitore dispone delle dichiarazioni di un gran numero di consorzi che attestano la sua conformità alle leggi italiane sul lavoro. Pur incoraggiando senz’altro il rispetto dei diritti umani e pratiche lavorative corrette in tutta la catena di distribuzione, non possiamo che limitarci a controllare solo i nostri fornitori diretti”.

La versione integrale dell’articolo, qui.

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