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Semiotica volgare di Cagliari: il verbo scenderne.

Creato il 09 ottobre 2011 da Subarralliccu @subarralliccu

Semiotica volgare di Cagliari: il verbo scenderne.

A Sa’,

Ricordi quella lunga notte? Quando pisciasti illuminato dalla luna e rimproverato dal Big Ben? Io si. Il Tamigi ormai l’hanno riempito di luci e vetraglia. USA docent. Ed a guardarlo, come facemmo noi, da una panchina, si e’ vittima di un gran raggiro. Che gli architetti la pensano bene, la faccenda. Tutte quelle strutture specchianti, tutti quei caleidoscopi, tutta l’oscurita’ dell’immobile, appiccicoso nastro dell’acqua. E alle nostre spalle la megalopoli, appena dietro l’angolo, un tritacarne che divora tutto e ti arriva sotto forma d’hamburger. La sparai grossa, allora, dicendo: “Londra e’ infinita”. Anche perche’, sai, dovevo rimorchiare. La storia e gli architetti me l’avevano fatta ingoiare la pillola. Come l’incenso in chiesa. Tutta una fregatura. Ogni citta’ e’ infinita. Deve superare la prova dell’esistenza, casomai, non quella della quantita’. E’ forse per reazione che ho preso a schivare la paccottiglia, manco fossi un indigeno davanti ai conquistadores, fermandomi piuttosto sulle cosette, sulle inezie opache, sulle quisquilie cascate per strada. Che le citta’ si capiscono meglio nei loro atti involontari. A volte credo che l’unico modo di vedere risieda nella difesa. La bellezza e’ ovunque, Sancio. Schiaffatelo bene nel fagiolo. Ma basta co ste grullaggini da schiappe di filosofia in pausa sigaretta. Ho in canna un paio di robette di strada. La strada, sempre.

Si comincia col verbo SCENDERNE.

 Scendere al mercato. Pronunziato da ziodda baffuta, che lo sfregare della busta della spesa le ha liquefatto le ascelle. Ultimi disgeli d’estate. Sospetta ombra di porro di carne sul limitare visibile. Tabacchino di via Cornalias, dieci metri dal mercato di via Quirra. Si rivolge ad un’amica che manco se la fila tutt’intenta a spellare il grattevvinci. Colpevolmente priva di buste. Causa ed effetto. La direzione del moto non esiste. Scendere significa partecipare al rito collettivo della spesa. Spazzolare i capelli crespi, metter su il vestito a fiori, aggiustare la pancera, chiedere al mozzicone spento del marito itta boliri de pappai. Prendere le scale che sanno di rutto, lavaggi con poco detersivo, sugo alle vongole. Pardon, arselle. Scendere al mercato significa guardare le padelle in offerta senza mai comprarle, guardare i mutandoni cinesi senza conoscere l’esistenza di Tezenis e comprare le triglie a 23 euro il chilo, con pensione da 800. Che in fondo al mozzicone lo si vuole bene. Gi ari trabballau. Manteniamo dei dubbi. Scenderne al mercato e’ il tempo antropologico e sociale che le casalinghe di periferia concedono a se stesse, un’illusione di viaggio, lo sdonzellarsi venendo dalla campagna, il piacere trovato nel recinto dopo anni ed anni di cunicoli di talpa. Si comincia a scendere al mercato a 30 anni, se si e’ precoci. Una volta dentro non se ne esce piu’.Salire dal mercato diventa intransitivo.

 Scenderne le carte. Atto con il quale il giocatore di pinella si libera del gravoso carico di carte (surrettiziamente accumulate in una serie di imbarchi) spargendo sul tavolo, fra gli spasmi altalenanti di avversari e compagni, una combinazione irresistibile di punti. Magari una doppia, limite ontologico alla chiusura. Gesto liberatorio, minaccioso, gagliardo. Palpiti al cuore o serenita’ ascetica viene comunque seguito da una sigaretta.  E’ necessaria grande complicita’, nel caso si giochi in coppia. Molti matrimoni ed amicizie hanno sepoltura fra i ventagli di carte non scese. Non scenderle e’ estremo atto solipsistico. La fine di ogni sogno di comunita’, urlo munchiano che spacca gli specchi dello spirito.

 Scendine l’antenna. Proviene da “calandi s’antenna”. Sarebbe “abbassa il volume”. La sineddoche e’ magistrale. Piantata nel flusso del tempo come una vanga nel letto di un torrente. Viene spolmonato nel silenzio del meriggio da un nonno furibondo, avverso alla modernita’ ed ai “Mars bikers”, animazione ambigua per bambini degli anni ’90. Tremano gli appartamenti all’intorno. I nipoti odono i riverberi di quelle gentilezze per decenni. Di solito non vanno oltre i primi tre anni d’agraria. I piu’ stoici arrivano all’universita’, di solito in psicologia, ma abbandonano i corsi per tuffarsi nel mondo dei fumetti. Amano i nonni solo a Pasqua e Natale, quando sganciano. Si vendicheranno vendendo la casa, quando i vegliardi schiattano, per comprarsi la moto d’acqua, o pagare il viaggio in Tunisia alla moglie isterica.

 Scenderne la testa. Atto remissivo, reclinazione del capo in segno di soggezione. Dubbio il percorso filologico. Alcuni lo attribuiscono all’influenza che il cinema di Leone ebbe negli anni ’70,  ai feroci ed irsuti close-up. Si scende la testa in un duello, in piazzette di spaccio o gremo, in sottoscala purulenti, in parcheggi dove ancora l’asfalto non ha lasciato segni tangibili d’amministrazione comunale. Due figuri s’incrociano: debiti, voci di quartiere, contenziosi legati al gentil sesso, faide primordiali fermentate nel bar sotto casa.  Questione di attimi. Qualcosa li divide. Sara’ solo uno a scenderne la testa.

 Scenderne gente. Atto politico attraverso il quale il soggetto offeso chiama a raccolta gli individui piu’ aggressivi e fisicamente capaci della propria tribu’ affinche’ questa esaurisca, nel sangue, il sentimento di vendetta. Di solito l’offeso e’ colui che ne ha sceso la testa (vedi sopra). Afflitto da un sentimento di vergogna sociale, trova un pretesto per offendere a sua volta il gaglioffo noncurante. Viene sistematicamente enfiato a calcipugnieschiaffi. A questo punto si trova costretto a scenderne gente. Impossibile descrivere le dinamiche. Alcuni quartieri, come il CEP o Selia, non sono che un moto costante di persone che scendono gente. Insieme alle persone scendono gli oggetti.

Celeberrimo il “calandi sa cos’e certai”, valigette asettiche appese accanto al citofono e contenenti tutti i ferri del mestiere: catene, piedi di porco, mazze da baseball, coltelli, manganelli, blosters, pistole, fucili e nei casi piu’ estremi lavatrici cariche di sbobba non centrifugata. In alcuni casi scenderne gente diventa sport, e sa cos’e’certai diventa un mezzo di produzione comune. Alcuni piccole enclavi hanno portato a compimento il sogno del comunismo. Ma non so dove.

 Scendere in. Verbo frasale modellato sul crawl in inglese. Frequentare assiduamente, identificare uno spazio urbano come rappresentativo di una persona o di un gruppo di persone. “Ultimamente sto scendendo-in piazza Giovanni”. Di solito le persone che scendono-in non hanno un cazzo da fare. Universitari falliti, pupe di smalto facile che passano partime i prodotti nei nastri dell’Auchan: volti inconsapevoli del proletariato postmoderno vivono le loro giornate grazie ad  azioni palliative che solo servono a reggiungere l’instante in cui si scendera’-in.

 Eeeee sceeeendine. Vocativo troncato (dal piedistallo, dall’alto, etc…) tipico di chi cerca di esorcizzare una smargiassata. Invito a ridimensionare parole o attitudini.

 Scendimene dai coglioni. Figurato. Invito rivolto ad un individuo diventato ormai molesto o sgradito.

 Scendimi-il/la. Anch’esso un inglesismo, verbo frasale originato da get-me-the. “Scendimi la spazzatura”; “se scendi a Cagliari scendimi l’imperiale”; “dalla mansarda scendimi una bottigli di vino”, etc. etc. etc. Portar giu’, avvicinare, trasportare, buttare.

 Insomma Sancio, solo qualche esempio. La lista e’ potenzialmente infinita. Come le citta’.Invito pertanto tutti i lettori a partecipare attivamente. Aguzzate le orecchie e scrivete, come vi viene, la vostra esperienza nello scenderne. Il mio profilo facebook e’ aperto a tutti. Questa lettera, come altre a seguire (spero), rimarra’ aperta.

 Non ti saro’ mica sceso, Sancio?!

 NB: perdere passione, interesse.

Ps. Ringrazio: Carlo Tivinio, Roberto Carta, Benedetta Mulas, Giampaolo Salice, Andrea Foschi, Robertone Macis, Alessandro Usai, Daniele Carta ed Enrico Aramu e Stefano Melis che hanno generosamente condiviso le proprie intime discese. Fate lo stesso.


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