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Shakespeare a Rebibbia

Creato il 12 marzo 2012 da Presidenziali @Presidenziali
Shakespeare a RebibbiaI fratelli Taviani sono tornati con un gran film che avvince, convince e commuove il giusto. Bello e semplice, Cesare deve morire fila via senza inciampi o sbavature e con la stessa sicurezza va dritto al cuore e alle viscere di chi guarda. Non se l’aspettava nessuno. Chi non ha pensato: figuriamoci, i Taviani che vincono a Berlino! Loro, nomi-simbolo di un cinema italiano considerato démodé, che oggi si fa fatica ad amare, così smaccatamente autoriale, con tanto di etichetta d’arte doc incorporata. Invece, a distanza di decenni, l'Orso d'oro lo hanno riportato in Italia proprio questi due meravigliosi ottantenni, con un film inconfondibilmente loro, per la sicurezza, l’eleganza, il rigore geometrico della messinscena e della regia. Un film che non "distanzia" come troppo spesso è capitato al Taviani-cinema ma piuttosto "avvicina", Cesare deve Morire si inserisce in quella lunga tradizione di re-invenzione dei Classici della letteratura attraverso il cinema, propria dei due registi toscani che dopo Tolstoj, Goethe e Pirandello, scelgono questa volta Shakespeare re-inventando una delle tragedie più incisive del grande drammaturgo e poeta elisabettiano.A Rebibbia, sezione speciale, il regista Fabio Cavalli come ogni anno mette in scena un testo teatrale interpretato dai detenuti. Stavolta l’opera prescelta è il Giulio Cesare di William Shakespeare. Assistiamo quindi alla preparazione della messa in scena della tragedia. Il casting, il bianco e nero che sgrana i volti segnati come carte geografiche di territori sconosciuti, volti così totalmente pasoliniani; le voci che tuonano, echeggiando nelle stanze di cemento; le prove come capita capita, prima un po’ squinternate poi sempre più focalizzate, il backstage. Tutto quello che avviene durante la fase di preparazione di uno spettacolo teatrale, ci viene raccontato. Con l’ovvia differenza che qui a recitare non sono attori professionisti, ma detenuti con molti anni di carcere alle spalle e davanti a sé, e pure qualche fine pena mai (leggiamo in sovrimpressione i reati: traffico di stupefacenti, omicidio, cose di camorra). E non c’è confine né soluzione di continuità tra l’opera teatrale e la reale esistenza di chi la interpreta: le due dimensioni si fondono e l’opera prende vita nei corridoi, nel cortile durante l’ora d’aria, nella cella mentre si guarda il soffitto, nella biblioteca del carcere o mentre si lava un pavimento. Man mano la tragedia prende corpo sotto i nostri occhi e quelli degli altri detenuti, che sono un po’ pubblico e un po’ coro e avvolge, coinvolge i carcerati-attori e tutti noi spettatori. In questo senso, si può parlare di neorealismo all’ennesima potenza, un neorealismo in 3D oserei dire, dal momento che questa emozione risulta così vera e palpabile da poterla quasi toccare.I Taviani mettono in scena una catarsi e lo fanno nel modo cinematograficamente più classico: struttura circolare con apertura e chiusura sulla stessa scena, uso didascalico ma funzionale del colore, un bellissimo bianco e nero che salva le riprese dal rischio dell'effetto finto-neorealismo televisivo, e l'ambientazione dell’opera nei luoghi del carcere.E poi c’è la verità totalizzante del linguaggio. Ognuno dei detenuti recita nel proprio dialetto, siciliano, calabrese, campano, o nella propria lingua transnazionale. Una codificazione che rimanda direttamente a Pasolini e alle sue intuizioni sulla letterarietà della lingua parlata. L’effetto è di massima efficacia e naturalezza e alcune battute shakespeariane acquistano una forza barbara sorprendente (ma non c’è poi da stupirsi, Shakespeare ha visto e ha retto di tutto, e resiste a tutto, magari guadagnandoci come in questo caso). Questa volta i Taviani vanno dritti al sodo, restano attaccati al testo, senza buttarla troppo sulla retorica dell’arte come riscatto e redenzione dalle brutture carcerarie. Evitano con maestria anche il rischio della mera rappresentazione buonista e politicamente corretta del teatro in carcere come terapia individuale e collettiva. I due registi lasciano campo libero all'opera inarrivabile di Shakespeare e al corpo a corpo che i detenuti ingaggiano con il testo, appropriandosene, cambiandolo, se necessario stravolgendolo anche.Le facce, i corpi e le voci dei carcerati si prestano perfettamente a questa tragedia tutta maschile sul potere, l’ambizione, il tradimento, la virilità offesa o orgogliosamente esibita. Su tutti stravince il Bruto di Sasà (Salvatore Striano). Per quanto ci riguarda il Bruto definitivo, dentro e fuori Rebibbia.Al di là di ogni possibile valutazione, di quelle che abbiamo già fatto e di quelle che faremo, Cesare deve morire è anche e soprattutto un’esperienza cinematografica immensa - che rischia quasi di impallidire qualunque cosa sia apparsa e apparirà sullo schermo in quest'ultima (seppur fortunata) stagione cinematografica e non solo - proprio per quel senso di inesplicabile, inquietante e gioiosa irrequietezza che si prova soltanto di fronte ai Veri Capolavori.

voto: 9


Voto redazione:------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Apeless: 8.5   |   Presidente: 9

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