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This Wheel’s on Fire, Bob Dylan and the Band

Creato il 16 giugno 2010 da Fabry2010

È una vicenda piuttosto nota, ci sono articoli e interi libri sugli indispensabili nastri magnetici dallo scantinato, incisi alla meno peggio con due mixer stereo a valvole Altec, un set di microfoni da studio Neumann recuperati dopo una tournee di Peter, Paul and Mary, il trio vocale folk così di successo in quegli anni, e soprattutto il fidato registratore a bobine Uher usato nel tour del 1966.
This Wheel’s on Fire, Bob Dylan and the Band
Nei primi mesi del 1966 Bob Dylan, appena venticinquenne, viveva come un motore sempre fuori giri, alimentato da tossiche miscele. Un lungo tour in Australia e in Europa lo aveva messo ogni sera davanti a un pubblico che non accettava, anzi non riteneva nemmeno concepibile, passare dalle ballate acustiche di voce, chitarra e armonica alle sonorità elettriche di una band di rock’n'roll. Al solo gesto di inserire il jack dell’amplificatore nella chitarra, Dylan doveva affrontare fischi, urla, scambi di insulti con platee di studenti, puristi del folk tradizionale, occhialuti intellettuali, gente che non avrebbero altrimenti mai contestato un artista.

A Manchester in maggio arrivano proteste, applausi ironici e altre grida: «Traditore!» «Giuda!» «Non sei Bob Dylan!» «Non ti ascoltiamo più!». Lui, bianco come un cencio, magrissimo, anfetaminico, risponde «Bugiardi!». Si rivolge alla sua band: «Play it fuckin’ loud!». E attaccano quel pezzo dell’anno prima, proprio quello che la Columbia Records non avrebbe voluto far uscire, per quel suono sporco e stridente, per lo sproposito di sei minuti di lunghezza, Like a Rolling Stone.

Sul palco con Dylan ci sono quattro Canuck, Robbie Robertson (chitarra), Rick Danko (basso), Richard Manuel (piano) e Garth Hudson (organo). Da mesi sono parte del suo entourage di musicisti, ma al pubblico sono pressoché sconosciuti. I quattro hanno iniziato a suonare alcuni anni prima unendosi al gruppo di un cantante rockabilly, Ronnie Hawkins, in giro per i club di Toronto e dell’Ontario. Il ticket Ronnie Hawkins and The Hawks non faceva il tutto esaurito. Forse era un problema di nome. Dopo Hawkins, suonano come The Levon Helm Sextet, Levon and the Hawks, Canadian Squires, ancora The Hawks, finché Dylan non li chiama per accompagnarlo nel suo tour nell’autunno del 1965. Il veterano del gruppo, il batterista americano Levon Helm, lascia dopo un paio di mesi per lavorare su una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico (proprio una di quelle che ora esplodono), stanco di fischi e contestazioni a ogni apparire di batteria, chitarra e basso elettrici. Dietro Dylan, sul palco solo nella seconda parte del concerto, “the electric band” (pochi li chiamano ancora Hawks) riceve in pieno gli abusi verbali contro la novità, e non conosce gli applausi che pure arrivano a Dylan, a lui solo, durante la prima parte del concerto, esclusivamente acustica.

Tornato in America dopo i concerti inglesi, Dylan non ha un momento di sosta: è attesa la stesura finale del romanzo Tarantula, da consegnare in un paio di settimane, la rete televisiva ABC gli ha corrisposto un anticipo per un documentario sul tour appena concluso, e il suo agente Albert Grossman ha già fissato parecchie date per la continuazione del tour fino alla fine dell’anno.

This Wheel’s on Fire, Bob Dylan and the Band

Il 29 luglio 1966 Dylan ha un incidente sulla sua Triumph Tiger 100, non lontano dalla sua casa di campagna a Woodstock (una quarantina di chilometri da New York). Molto spavento probabilmente, ma pochi danni: non c’è nemmeno ricovero in ospedale, pare, ma Dylan ne aprofitta per annullare ogni apparizione pubblica per più di un anno e ritirarsi a fare vita di famiglia (si è sposato da poco) tra le fattorie e i boschi dell’Upper New York State.

Tra il 1966 e il 1967 l’America conosce il movimento di massa per i diritti civili di Martin Luther King, i disordini razziali a Lansing, Detroit e Newark, la recrudescenza della guerra in Vietnam, il «siamo più famosi di Gesù!» di Lennon (che dopo quella sparata e le scuse successive registra il Sgt. Pepper). Il 1967 è l’anno del Monterey Pop Festival e dell’estate dell’amore. In questo turbinio, Dylan dimentica le canzoni di protesta e i movimenti politici, prende tempo per sé e rispolvera dalla sua collezione di dischi antichi pezzi della sua infanzia, ballate tradizionali, canzoni marinare e western, vecchie melodie e successi degli anni ’40 e ’50, o cose più recenti, tutte popolari: Hank Williams, Johnny Cash, Pete Seeger, Bo Diddley, Ian Tyson, John Lee Hooker (che era quasi del tutto dimenticato), qualche nenia per bambini. Nulla che sia in alcun modo riferibile ai tempi che stanno cambiando, forse però sottofondo adatto alla vita di una giovane famiglia che cresce al riparo dalle frenesie della grande città.

Oltre alla famiglia però, gli amici rimangono, almeno per un po’: non è simpatico abbandonarli su una strada. E i quattro canadesi non avevano nulla da fare. Robbie Robertson aveva preso casa poco lontano da Dylan, in West Saugerties, e Dylan stesso aveva chiamato Danko e Manuel a Woodstock per avere una mano nell’editing del documentario richiesto dalla ABC, data la sua leggendaria mania di occuparsi personalmente di tutti gli aspetti dei progetti artistici che lo riguardavano. Danko così affitta nel febbraio ’67 una casa di campagna a West Saugerties presto battezzata Big Pink, arriva Garth Hudson, e i quattro ne fanno la loro dimora e il loro studio di registrazione.

This Wheel’s on Fire, Bob Dylan and the Band

“Ci trovavamo ogni giorno attorno all’una nello scantinato di Big Pink, era ormai un’abitudine. Scendevamo e suonavamo ogni giorno, per non andare via di testa. Nessun’altra ragione. Non stavamo preparando un disco, stavamo solo a scherzare. Qualsiasi cosa ci veniva in mente, lo registravamo in questo piccolo apparecchio”, così Danko ricorda la routine di quell’anno. Nella primavera ’67 si trovano anche a casa di Dylan, e Bob, naturaliter leader della band, li erudisce sugli arcani delle melodie tradizionali, sulle canzoni che in qualche modo hanno un qualcosa che le fa funzionare: Dylan ha un orecchio straordinario per dissotterrare e cogliere le cose un po’ speciali. Le sessioni vere e proprie sono registrate nello scantinato di Big Pink. Dylan arrivava verso mezzogiorno, con donught e tanto caffè, scuoteva i quattro dai fumi del sonno e di tutte le sostanze assunte il giorno prima, e poi via a suonare fino a tardi: cover delle canzoni scelte da Bob, improvvisazioni, arrangiamenti sperimentali (manca il batterista), e qualche pezzo nuovo. Sono come vecchi amici, scherzi sull’orlo della ciucca, canzonature, l’atmosfera della sagrestia mescolata a quella del bordello, una lunga notte di chiacchiere, musica, bevute e vanterie di donne. Il divertimeno è contagioso:

Bob Dylan: “Take a look at me baby, I’m your teenage prayer”
Rick Danko sulla stessa strofa: “No, take a look at ME baby! I’m your teenage bear!”
e Bob non si tiene più e scoppia a ridere.

Tra le oltre cento registrazioni fatte nel basement di Big Pink nella primavera/estate ’67, ci sono una quindicina di pezzi originali che non assomigliano a nulla di quello che Dylan ha composto nella sua carriera. Sono canzoni che sembrano provenire da luoghi e tempi non definiti della storia americana, pressapoco all’intersezione del Midwest con la dorsale degli Appalachi, fin giù lungo il corso dei fiumi, e seguono la casalinga vita delle famiglie nelle campagne, i drifters sui primi treni, le danze di paese e le nascite e i litigi, e le fughe di casa nella grande città, il ridere e qualche piangere, e la Bibbia, il grande codice dell’immaginazione americana. E senza che tutto questo possa fissare un determinato periodo storico. No, è il tempo generico di Americana: cose, identità, poesia, musica, humor americani, una rappresentazione, un tempo mentale, Melville e Faulkner, non solo Beat Generation e Ginsberg da salutare (See You Later, Allen Ginsberg, sulle note di alligator/crocodile). Ah, c’è però Li’l Abner. Ma il tono giocoso, cameratesco dei Basement Tapes è solo il rivestimento, la imagery: i tipi della cultura popolare trascendono la caratterizzazione e mutano nella sostanza di un’umanità perenne.

I pezzi nuovi, debitamente assicurati di copyright, sono spediti come grezzi demo ad altri artisti, alcuni sotto contratto per la Columbia, perché ne facciano versioni loro. Peter, Paul and Mary incidono “Too Much of Nothing” e la portano al successo. Ian & Sylvia incidono “Tears of Rage”, “Quinn the Eskimo” e “This Wheel’s on Fire”. I Manfred Mann scalano le classifiche in Inghilterra con la loro versione di “Quinn the Eskimo” (“Mighty Quinn”). The Byrds riprendono “You Ain’t Goin’ Nowhere”, e ne fanno un loro cavallo di battaglia, e “Nothing Was Delivered”. I Fairport Convention rifanno “Million Dollar Bash”. Infine, Julie Driscoll in Inghilterra propone una versione psichedelica di “This Wheel’s on Fire” nel ’68, passeggiando fra tante ruote di bicicletta (e sfidando il ridicolo), un po’ alla Magritte.

This Wheel’s on Fire, Bob Dylan and the Band

I nastri originari di Big Pink tuttavia sono tenuti sotto chiave a Columbia Records. Dylan e la Band non avevano pensato di incidere un disco, e il materiale non era ritenuto adatto alla pubblicazione: troppo rustico, troppo diverso dalle produzioni raffinate del periodo. I Beatles avevano appena definito un nuovo standard con Sgt. Pepper. Qualcuno – non si saprà mai chi – nottetempo sottrae la chiave e presto le prime incisioni pirata dei nastri iniziano a circolare. Con i Basement Tapes nasce il bootleg, il disco pirata per i fan. Dylan è l’artista forse più piratato al mondo fino alla rivoluzione digitale. Columbia finalmente cede alle pressioni di pubblico e critica, e solo nel ’75 pubblica il doppio LP di alcuni pezzi orginali dei Basement, a cui viene aggiunto materiale della Band registrato un anno dopo, in pratica outtakes di Music From Big Pink.

La raccolta ufficiale si chiude con “This Wheel’s on Fire”, scritta da Dylan insieme a Danko, che è forse la canzone più inquietante, misteriosa, drammatica, e musicalmente così intensa da essere dolorosa. Bob canta al limite della sua scala vocale, e davvero pare la voce del vecchio della montagna, dell’ultimo predicatore che ammonisce della fine dei tempi. Siamo in un altro mondo rispetto alla disinvoltura yéyé della Driscoll. Siamo in territori mistici, siamo all’ultimo appello prima della catastrofe, all’ultima ancora di salvezza per Ishmael e Ahab.

If your mem’ry serves you well
We were goin’ to meet again an’ wait

Se la memoria tua ti assiste
Ci incontreremo ancora, e aspetteremo.

Il profeta è esausto, dietro le canzoni del Basement, dietro i canti, dietro le maschere e le spiritose sguaiataggini ci sono i perenni drammi della vita, ci sono le chiese puritane del New England e le congregazioni di schiavi neri del Mississipi: il profeta ha visto tutto. Ma c’è ancora una cosa da dire, di assoluta, estrema importanza, che può salvare forse dall’acqua e dal fuoco che stanno per venire:
we should meet again
If your memory serves you well
.

An’ you know that we shall meet again è una promessa o una minaccia, prima che la ruota del tempo deflagri.
Tre strofe di versi enigmatici, in cui ci si può vedere il simbolismo delle letture giovanili di Dylan (i merletti annodati in un nodo di marinaio), Shakespeare (Best notify my next of kin, avvisate la mia gente), l’inanità delle imprese umane e ciò che unica rimane: la memoria, la promessa e la minaccia di rivedersi, cantato all’estremo limite della voce che si spegne, e non si sa se annuncia il compimento o la fine, o la verità che fine e compimento sono una cosa sola, che rotola via lungo la strada.

If your mem’ry serves you well
We were goin’ to meet again an’ wait
So I’m goin’ to unpack all my things
An’ sit before it gets too late.
No man alive will come up to you
With another tale to tell
An’ you know that we shall meet again
If your memory serves you well.

Wheel’s on fire
Rollin’ down the road
Best notify my next of kin
This wheel shall explode.

If your memory serves you well
I was goin’ to confiscate your lace
An’ wrap it up in a sailor’s knot
An’ hide it in your case.
If I know for sure that it was yours
But it was, oh, so hard to tell
An’ you know that we shall meet again
If your memory serves you well.

This wheel’s on fire
Is rollin’ down the road
Best notify my next of kin
This wheel shall explode.

If your memory serves you well
You’ll remember you’re the one
That called on me to call on them
To get you your favors done.
An’ after every plan had failed
An’ there was nothin’ more to tell
You knew that we should meet again
If your memory served you well.

This wheel’s on fire
Is rollin’ down the road
Best notify my next of kin
This wheel shall explode.

Dopo 43 e anni, il pezzo negli ultimi concerti, Dylan di nuovo alla chitarra dopo il periodo delle tastiere. L’arrangiamento ha un ritmo più veloce, l’ironia, e il mestiere dello stagionato rocker, ha temperato il sentimento della fine dei tempi.



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