Magazine Poesie

Una fiaba zigana

Da Paolo Statuti

Illustrazioni delle favole zigane, opera della nota illustratrice polacca Olga Siemaszko (1911-2000) Quella relativa alla favola qui pubblicata è la terza da sinistra in alto.

Illustrazioni delle favole zigane, opera della nota illustratrice polacca Olga Siemaszko (1911-2000) Quella relativa alla favola qui pubblicata è la terza da sinistra in alto.

   Nel lontano 1985 tradussi per la casa editrice e/o di Roma una bella raccolta di fiabe zigane intitolata “Il rametto dell’albero del sole” dello scrittore e poeta polacco Jerzy Ficowski. Per i bambini (ma forse non solo per loro) dei miei lettori ho scelto la fiaba La scatola incantata, nella quale si narra in modo fantasioso e poetico come è nato il violino e con esso la musica zigana.

 

La scatola incantata

   Al confine di un’abetaia con un faggeto vivevano, durante l’estate, dei poveri Zingari. D’inverno si trasferivano coi loro fagottelli in un vecchio mulino abbandonato, per avere un tetto sulla testa nelle giornate di gelo. A primavera tornavano al confine dell’abetaia con il faggeto e là, su una radura, piantavano la loro tenda piena di toppe e sfilacciata dai venti.

   Erano in due: lo Zingaro e la Zingara, sua moglie. Benché fossero già trascorsi sette inverni e sette primavere, estati e autunni, essi non avevano bambini e desideravano tanto avere un figlioletto. Un giorno la Zingara andò nell’abetaia in cerca di pigne. Le raccoglieva da terra e le metteva in un grande fazzoletto, raccoglieva e volgeva lo sguardo intorno. Vedeva lungo stretti viottoli, strettini come un’unghia, una lunga fila le formiche, che portavano dei bianchi involti in cui dormivano i loro bambini – le piccole formichine. «Fortunate formiche!…» sospirò la Zingara e riprese a raccogliere le pigne. Vedeva in un cespuglio di ginepro un fringuello che porgeva con il becco nere mosche ai suoi piccini. «Fortunato fringuello!…» sospirò la Zingara e riprese a raccogliere le pigne. Vedeva un riccio che portava a spasso quattro piccoli riccetti. «Fortunato riccio!…» sospirò la Zingara, quindi si mise il fazzoletto pieno di pigne sulle spalle e tornò alla sua tenda al confine dell’abetaia con il faggeto. Versò in terra le pigne e accese un grande fuoco, perché cominciava a rinfrescare; il vento soffiava e dall’abetaia giungeva un brusio, mentre dal faggeto – un fruscio. La Zingara si sedette vicino al fuoco e accanto a lei si sedette lo Zingaro.

   – Non c’era alcun bisogno di accendere un fuoco così grande, – disse lo Zingaro alla moglie. – Per noi due ne sarebbe bastato uno molto più piccolo.

   – Sì, è vero, – rispose la Zingara. – Ma se avessimo dei bambini, starebbero seduti attorno al fuoco e il calore basterebbe per ognuno. Allora non mi dispiacerebbe gettare tutte insieme nel fuoco le pigne dell’abetaia.

   Le pigne bruciavano creando un grande fuoco. Le rosse fiamme battevano le ali dorate, come se volessero volare via. Ma non potevano. Quando il falò si spense, lo Zingaro e la Zingara andarono a dormire nella tenda e fecero entrambi lo stesso sogno: sognarono un figlioletto – un marmocchio dai capelli neri.

   All’alba la Zingara si svegliò e andò col suo fazzoletto nel faggeto a raccogliere la faggina, con cui faceva bellissime collanine, infilando un pelo di coda di cavallo nelle piccole noci di faggio. Poi vendeva le collanine al mercato, perché facevano passare il mal d’ossa a quelli che le portavano al collo. Di faggina ce n’era in abbondanza, ma la Zingara ne raccolse appena tre manciate. Aveva visto una donna che guardava dalla cavità di un vecchio faggio. Era l’anima dell’albero e si chiamava Matuja. Si sporse dalla cavità e disse alla Zingara:

   – Non aver paura di me, sono l’anima di questo albero e non ti proibisco di raccogliere le piccole noci di faggio. Dimmi ciò che desideri, e io esaudirò ogni tuo desiderio.

   – O anima del faggio! – disse la Zingara spaventata. – Vorrei avere un figlioletto.

   – Avrai un figlioletto, – rispose Matuja. – Fa’ ciò che ti dirò. Quando andrai in paese a predire il futuro, cerca una zucca e allorché l’avrai trovata, staccala dalla radice e portala nella tua tenda. Ricorda però che la zucca deve essere grande e matura come la luna quando sorge. Svuotala, versaci il latte e poi bevilo fino in fondo, fino all’ultima goccia. Se farai questo ti nascerà un bambino bello e fortunato. E quando sarà cresciuto, che vada in giro per il mondo a cercare la fortuna che gli è predestinata. Perché non debba girare a mani vuote, ti do questa piccola scatola di legno di faggio, che un giorno forse gli potrà essere utile…

   Così dicendo, Matuja diede alla Zingara una scatola di legno e scomparve, e in un batter d’occhio la cavità dell’albero si coprì di corteccia di faggio.

   Tutta contenta la Zingara tornò di corsa alla sua tenda al confine dell’abetaia con il faggeto, e corse così in fretta, che lungo la strada perse metà della faggina raccolta. Portò dal villaggio una panciuta zucca, la svuotò, ci versò dentro un pentolone di latte di capra, che aveva ricevuto in cambio di una collanina contro il mal d’ossa. Bevve il latte fino all’ultima goccia, come le aveva ordinato Matuja. Aspettando la nascita del figlioletto, era così assorta nei pensieri, che per errore infilava nelle piccole noci di faggio i suoi capelli. Se ne accorse solo quando le collanine si spezzarono e le minuscole noci si sparsero sul muschio. Cominciò allora a infilarle di nuovo, ma per distrazione prese un filo di ragnatela, che era ancora più sottile e fragile del capello. Le piccole noci volarono via in tutte le direzioni, ma la Zingara non si afflisse per questo, perché una grande gioia regnava al confine dell’abetaia con il faggeto; era venuto al mondo un piccolo Zingarello.

   Lo Zingaro e la Zingara lavarono il marmocchietto nel ruscello che  aveva la sorgente nel faggeto e scorreva fino all’abetaia, e ancora oltre, fino al mare, che era al di là di essa. Fattogli il bagno, gli misero nome Bachtalo, che vuol dire Fortunato.

   Da quel momento accanto al fuoco sulla radura si riscaldavano in tre – lo Zingaro, la Zingara e lo Zingarello. E ciascuno aveva la sua porzione di caldo. I genitori del piccolo erano felici, ma poveri. Vissero un anno dopo l’altro, soffrendo il freddo e la fame. La Zingara non aveva di che vestire il figlioletto nei gelidi mesi invernali, quando si trasferivano, come sempre, nel vecchio mulino abbandonato. Passarono gli anni ma, chissà perché la profezia di Matuja ancora non si  avverava e il ragazzo era fortunato solo di nome.

   Trascorsero così venti anni. Una mattina Bachtalo uscì presto dalla tenda, si accomiatò dai genitori e se ne andò per il mondo in cerca di fortuna. Prese con sé la piccola scatola di faggio per la buona sorte e un bastoncino per difendersi dai cani rabbiosi. Attraversava i boschi, sceglieva strade tortuose, e gli animali che incontrava nella macchia gli suggerivano amichevolmente in quale parte del mondo fosse meglio andare. Perché Bachtalo viveva in armonia con gli animali fin dalla più tenera età e capiva i loro più diversi linguaggi: il volpino e il lupesco, lo scoiattolano e il tassese. Bachtalo andava per i boschi ma, benché cercasse in terra, nel cavo degli alberi e sui rami più alti, non riusciva a trovare la sua fortuna in nessun luogo. Finché un giorno un vecchio tasso gli disse che doveva andare a sud. Perché lì viveva un ricco re dei boschi che aveva promesso di rendere felice colui che avesse fatto qualcosa che il mondo non aveva ancora visto.

   – E in qual modo questo re lo renderà felice? – chiese Bachtalo.

   Il vecchio tasso rispose:

   – Il re ha promesso di dare sua figlia in moglie e metà del suo regno a un prode giovane. Io stesso avevo pensato di tentare la fortuna. Se la cosa mi fosse riuscita, avrei ottenuto la principessa e molti sudditi. Ma ci ho rinunciato, perché ormai sono troppo vecchio e le orecchie mi sono diventate completamente grigie. Tu, Bachtalo, sei giovane, – aggiunse il tasso, – e dovresti provare. Forse riuscirai a esaudire il desiderio del re, diventando così il marito di sua figlia… Dirigiti a sud.

   – D’accordo. Ti ringrazio, – disse Bachtalo e partì. Attraversò una abetaia e un faggeto, una selva di pini e un’altra di aceri, finché arrivò in una vasta radura, dov’era la capitale del re dei boschi. Al centro di essa spiccava la grande tenda rossa in cui viveva il re con la sua figliola. Bachtalo entrò nella tenda reale e disse:

   – Sono lo Zingaro Bachtalo. Sono giunto, o re, per esaudire il tuo desiderio…

   Ma senza tanti complimenti, i servitori del re lo buttarono fuori dalla tenda, perché il sovrano era occupato ad ascoltare il fruscio del bosco, e quindi non aveva tempo.

   – Sappi, – disse un servo allo Zingaro, – che ogni giorno dalle cinque alle sette il re ascolta il fruscio del bosco e perciò non può essere disturbato. Torna domattina presto.

   Bachtalo andò a cercarsi un giaciglio nel bosco e pensò che avrebbe dovuto vedere la principessa, prima di trovarsi di nuovo davanti al re.

   La luna stava spuntando sul bosco, panciuta e grande come una zucca, e illuminava il lago, dove proprio in quel momento la figlia del re dei boschi stava facendo il bagno. Bachtalo pensò che era molto bella, e non si sbagliava, perché era bella davvero.

   La mattina seguente Bachtalo si recò dal re e gli disse:

   – Ho sentito, o re, che vuoi dare tua figlia in moglie a colui che farà qualcosa che il mondo ancora non ha visto. Sappi dunque che io voglio sposare tua figlia, dimmi soltanto ciò che devo fare.

   Udite quelle parole il re andò su tutte le furie e gridò:

   – Ma cos’hai in quella testa?! Mi chiedi cosa devi fare? Lo sai bene che darò mia figlia soltanto a colui che creerà una cosa tale, che nessuno ne ha mai vista una simile! Per questa stupida domanda finirai in prigione!

   In quello stesso istante gli piombarono addosso i valletti del re e il povero Zingaro finì in una buia fossa sotto le radici di una vecchia quercia. Chiusero la fossa con una pesante pietra e Bachtalo restò solo al buio. E anche se ci spuntava una qualche luna, sottoterra essa doveva essere certamente nera, perché non si vedeva affatto. Le talpe andavano da Bachtalo per riscaldarlo con la loro calda pelliccetta. Bachtalo non riusciva a vedere neanche loro in quella oscurità, ma le aveva riconosciute dalla voce, perché conosceva il talpese.

   Non si sa da quanto tempo si trovava lì, quando all’improvviso il sotterraneo s’illuminò di una luce dapprima verdognola e poi bianca, e al ragazzo apparve Matuja. Aveva lunghi capelli argentei come un ruscello.

   Gli si rivolse sussurrando, e in un primo momento Bachtalo pensò che non fosse un sussurro, ma il vento, o qualcuno che sopra la sua testa raccoglieva le fascine e le pigne nel bosco. Ma un istante dopo Bachtalo cominciò a capire le parole sussurrate da Matuja. Ed esse erano:

   – Non aver paura e non affliggerti, Bachtalo. Uscirai di qui e sposerai la figlia del re dei boschi. Sono Matuja e prima ancora che tu venissi al mondo ho promesso che avresti avuto fortuna. Sono venuta per mantenere la promessa. Hai sempre con te la piccola scatola di legno di faggio, vero?

   – Ce l’ho, – rispose Bachtalo socchiudendo gli occhi per la troppa luce, – ma non mi è servita a niente. Ho raccolto ossicini di pipistrello, che portano fortuna, e li ho messi nella scatola. Ho colto il quadrifoglio e ho messo dentro anche quello, ma si è seccato ed è finito in polvere. E la fortuna non s’è mai vista.

   – Non affliggerti, Bachtalo, – riprese a sussurrare Matuja. – Ce l’hai un rametto di faggio?

   – Ce l’ho, – rispose Bachtalo, – e non mi è servito a niente, perché non ho incontrato nessun cane, da cui mi sarei dovuto difendere. Ma anche se l’avessi incontrato e cacciato via, – questo avrebbe forse significato avere fortuna?

   – Non affliggerti, – rispose Matuja. – Prendi una ciocca dei miei capelli e tagliala.

   Bachtalo lo fece, e lei disse ancora:

   – E adesso fissa una parte della ciocca sulla tua scatola e la parte restante legala al bastoncino di faggio. Da questo momento la piccola scatola allieterà o rattristerà la gente, secondo il tuo desiderio.

   Matuja si mise la scatola sul palmo della mano, se l’accostò alla bocca e ci rise dentro sottovoce. Poi cominciò a piangere e qualche sua lacrima cadde nella scatola.

   – Adesso prendi il bastoncino e passalo avanti e indietro sui miei capelli che hai fissato sulla scatola.

   Bachtalo provò a fare come lei diceva ed ecco che dalla scatola cominciarono a fluire dolcissime note. Matuja scomparve. Nel sotterraneo era tornato il buio, ma Bachtalo non smetteva di suonare. All’inizio suonò un adagio triste. Lo sentirono nelle profondità della terra le cieche talpe e pensarono: è giunto l’autunno, le tristi nebbie vagano sopra il bosco e le foglie dorate cadono nelle pozzanghere. Ma poi Bachtalo cominciò a suonare un allegro vivace che riscaldò l’aria nel sotterraneo; si sentivano gli uccelli svolazzare e il cinguettio di migliaia di piccole gole.

   D’un tratto la fossa della prigione si rischiarò. Bachtalo pensò che fosse tornata Matuja, e che quella fosse la sua luce. Ma no! Era la luce del giorno. Il re dei boschi aveva udito il suono e aveva ordinato ai suoi servitori di togliere la pesante pietra e di far uscire il prigioniero dal sotterraneo.

   Quando Bachtalo si trovò davanti al re gli disse:

   – Guarda, o re, e ascolta! Ecco una cosa che il mondo non ha mai visto e non ha mai udito.

   E comiciò a suonare con la sua piccola scatola. Iniziò con una triste melodia. Il re scoppiò a piangere e dalle sue lacrime – come dopo la pioggia – spuntarono centinaia di funghi. Poi suonò un’allegra canzone. Il re sorrise e assieme a lui sorrisero i cortigiani, la famiglia reale e il bosco intero. Il sorriso più bello però era sul viso della principessa, e in quel medesimo giorno sulla radura del re vennero celebrate le nozze. Bachtalo condusse con sé la madre e il padre dal confine del faggeto con l’abetaia, e tutti insieme mangiarono, bevvero e fecero festa per tre giorni. E Bachtalo suonò le più allegre canzoni. Il re dei boschi smise di ascoltare i fruscii del bosco dalle cinque alle sette, perché la musica della scatola incantata era cento volte più bella di ogni fruscio.

   Ed è così che venne al mondo il violino.

 

 

 

(C) by Paolo Statuti

 

 

 



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