Magazine Diario personale

Woolly Mammoth's Mighty Absence

Da Margherita

Quest'estate ho letto il memoir di Joyce Johnson (Minor Characters). L'ho letto a pezzi, su diversi treni. Parla della Beat Generation, ma non dal solito punto di vista, non da quello che avevo assunto durante le mie intense letture adolescenziali. Il punto di vista è quello di una ragazza, una giovane scrittrice.

La prima parte della vicenda si svolge a Morningside Heights, il quartiere dell'Upper West Side dove è situata la Columbia University, ovvero la zona di New York dove ho vissuto per un semestre durante il secondo anno di magistrale.

Joyce Johnson studiò al Barnard College e visse a pochi passi dal block in cui abitavo io. La sua è stata la prima voce veramente critica che ho incontrato sull'istituzione accademica che mi ha ospitata. Mi ero fatta l'idea che, anche durante gli anni '50, tutto fosse rose e fiori per le ragazze del Barnard. Invece no.

Johnson racconta le lezioni di letteratura durante le quali docenti deprecabili spiegavano che le ragazze non possono aspirare a scrivere materiale veramente degno, perché ci sono dei limiti strutturali al loro genere. Le ragazze non potevano andare in giro per il mondo a fare Grandi Esperienze, quindi come avrebbero potuto scriverne?

Quando lessi questo passaggio, mi tornò alla mente una nottata che trascorsi insonne nella hall del palazzo in cui abitavo, nel quale c'erano sia appartamenti studenteschi sia di comuni civili. Il portiere, che era un uomo simpatico che avevo visto più di una volta immerso nella prosa di Kafka, se ne stava nel suo gabbiotto, mentre io ero accomodata su una poltrona in pelle abbastanza rovinata. Ricordo che per qualche motivo non volevo tornare nella mia stanza, quindi me ne stetti lì per circa tre ore, fino alle due di notte passate, a leggere il diario che accompagna l'edizione speciale di Dawn, il disco di Phil Elverum.

Quel diario racconta il periodo che Phil trascorse in una zona completamente isolata Norvegia, nel cuore dell'inverno e in completa solitudine. Leggevo con calma, perché sapevo che le pagine erano poche e volevo farmele durare. Pensavo anche che la persona che raccontava tutte quelle storie sulla neve, la legna, la pesca e le tracce di lupo aveva la mia età, quando piantò tutto in asso per fare quell'esperienza.
Lo leggevo, e mi pareva di non aver fatto niente di niente nella mia vita, anche se ero nella hall di un palazzo di Morningside Heights mentre lo pensavo.

Mi capita di ripensare spesso a quel diario, così come al memoir di Joyce Johnson, in parte perché entrambi parlano indirettamente degli aspetti perversi delle relazioni sentimentali che arrivano a ridurti ad una carcassa di ciò che eri. Mentre leggevo il diario di Elverum, ero la premessa di una carcassa. Mentre leggevo il memoir di Johnson, ero un'equilibrista alla ricerca di un approdo.

Ora non so cosa sono. Vorrei avere la forza, il coraggio e la tenacia necessarie per scrivere di ciò che mi sta succedendo e mi è successo nel corso degli ultimi due anni con una limpidezza come quella di Elverum e uno sguardo sui nessi e il contesto in cui mi muovo che abbia anche solo qualcosa dell'acume di Johnson.
Sono scritti nudi, anche se in modo molto diverso l'uno dall'altro.

In questi giorni mi sto chiedendo che ne sia stato nella mia propensione a tentare di scrivere così. Ci penso, ma finisco sempre per fare altro, tra lavoro, Soft Revolution e affini.
Il fatto è che ho bisogno di scrivere per capirmi, per trovare un senso alle mie azioni. Forse sono mesi che fluttuo nel buio.

Forse invece sono solo confusa e non capisco niente e sono come Phil che raccontava il suo sogno in cui si trovava al cospetto di Björk e le diceva quanto la sua musica fosse stata importante per lui, ma in modo imbarazzato e scemo.

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(img: Phil Elverum)


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