Nell’organismo degli esseri umani è presente l’Amarezza -in misura maggiore o minore-, proprio come alligna il bacillo della tubercolosi. Ma le due malattie attaccano solo quando la persona è debilitata: nel caso dell’Amarezza, la malattia compare quando si manifesta la paura della cosiddetta “realtà”. Nella frenesia di voler costruire un mondo inviolabile per qualsiasi minaccia proveniente dall’esterno, alcune persone aumentano esageratamente le difese contro l’esterno (gente estranea, posti nuovi, esperienze diverse) e lasciano sguarnito l’interno. Da quel momento, l’Amarezza comincia a causare danni irreversibili. Il grande bersaglio dell’Amarezza -o del “Vetriolo”, come preferiva definirlo il dottor Igor- era la volontà. Le persone colpite dal male perdevano a poco a poco ogni voglia di agire, e nel volgere di qualche anno non sapevano più uscire dal proprio mondo, avendo sprecato enormi energie nella costruzione di alte muraglie, affinchè la realtà fosse come essi desideravano. Nel tentativo di evitare l’attacco esterno, avevano limitato la proprio crescita interiore. Continuavano a recarsi a lavoro, a guardare la televisione, a lamentarsi del traffico e ad avere figli, ma ogni cosa avveniva in modo automatico, senza alcuna grande emozione interiore -perchè, in definitiva, era tutto sotto controllo-.Il grande problema dell’avvelenamento da Amarezza era che anche le passioni -l’odio, l’amore, la disperazione, l’entusiasmo, la curiosità- smettevano di manifestarsi. Dopo qualche tempo, all’amareggiato non restava più alcun desiderio. E non aveva voglia nè di vivere nè di morire: ecco il problema. Ecco perchè gli amareggiati, gli eroi e i folli erano sempre affascinanti: perchè non avevano paura di vivere o di morire. Sia gli eroi sia i folli si mostravano sprezzanti del pericolo, e andavano avanti, malgrado tutti gli dicessero di non fare una certa cosa. Il folle si uccideva; l’eroe si offriva al martirio in nome di una causa. Entrambi morivano: e gli amareggiati passavano nottate e giornate intere parlando dell’assurdità e della gloria dei due tipi. Era l’unico momento in cui avevano la forza di salire in cima alla propria muraglia difensiva per lanciare uno sguardo all’esterno: subito dopo le mani e i piedi si stancavano, e così tornavano alla solita vita. L’amareggiato cronico avvertiva la propria malattia soltanto una volta alla settimana: nel pomeriggio della domenica. Allora, non avendo il lavoro o la routine ad alleviargli i sintomi, capiva che c’era qualcosa di decisamente sbagliato: la pace di quei pomeriggi era infernale; il tempo non passava mai, e lui si ritrovava in preda a una fortissima irritazione. Poi sopraggiungeva il lunedì, e l’amareggiato dimenticava i sintomi, quantunque si accanisse contro il destino che non lasciava tempo sufficiente per riposare, e si lamentasse per i fine-settimana che passavano troppo velocemente.
Nell’organismo degli esseri umani è presente l’Amarezza -in misura maggiore o minore-, proprio come alligna il bacillo della tubercolosi. Ma le due malattie attaccano solo quando la persona è debilitata: nel caso dell’Amarezza, la malattia compare quando si manifesta la paura della cosiddetta “realtà”. Nella frenesia di voler costruire un mondo inviolabile per qualsiasi minaccia proveniente dall’esterno, alcune persone aumentano esageratamente le difese contro l’esterno (gente estranea, posti nuovi, esperienze diverse) e lasciano sguarnito l’interno. Da quel momento, l’Amarezza comincia a causare danni irreversibili. Il grande bersaglio dell’Amarezza -o del “Vetriolo”, come preferiva definirlo il dottor Igor- era la volontà. Le persone colpite dal male perdevano a poco a poco ogni voglia di agire, e nel volgere di qualche anno non sapevano più uscire dal proprio mondo, avendo sprecato enormi energie nella costruzione di alte muraglie, affinchè la realtà fosse come essi desideravano. Nel tentativo di evitare l’attacco esterno, avevano limitato la proprio crescita interiore. Continuavano a recarsi a lavoro, a guardare la televisione, a lamentarsi del traffico e ad avere figli, ma ogni cosa avveniva in modo automatico, senza alcuna grande emozione interiore -perchè, in definitiva, era tutto sotto controllo-.Il grande problema dell’avvelenamento da Amarezza era che anche le passioni -l’odio, l’amore, la disperazione, l’entusiasmo, la curiosità- smettevano di manifestarsi. Dopo qualche tempo, all’amareggiato non restava più alcun desiderio. E non aveva voglia nè di vivere nè di morire: ecco il problema. Ecco perchè gli amareggiati, gli eroi e i folli erano sempre affascinanti: perchè non avevano paura di vivere o di morire. Sia gli eroi sia i folli si mostravano sprezzanti del pericolo, e andavano avanti, malgrado tutti gli dicessero di non fare una certa cosa. Il folle si uccideva; l’eroe si offriva al martirio in nome di una causa. Entrambi morivano: e gli amareggiati passavano nottate e giornate intere parlando dell’assurdità e della gloria dei due tipi. Era l’unico momento in cui avevano la forza di salire in cima alla propria muraglia difensiva per lanciare uno sguardo all’esterno: subito dopo le mani e i piedi si stancavano, e così tornavano alla solita vita. L’amareggiato cronico avvertiva la propria malattia soltanto una volta alla settimana: nel pomeriggio della domenica. Allora, non avendo il lavoro o la routine ad alleviargli i sintomi, capiva che c’era qualcosa di decisamente sbagliato: la pace di quei pomeriggi era infernale; il tempo non passava mai, e lui si ritrovava in preda a una fortissima irritazione. Poi sopraggiungeva il lunedì, e l’amareggiato dimenticava i sintomi, quantunque si accanisse contro il destino che non lasciava tempo sufficiente per riposare, e si lamentasse per i fine-settimana che passavano troppo velocemente.
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