Un genio è sempre e in definitiva un uomo che si pone solo problematiche che è in grado di risolvere, come l’affaccendato cultore di enigmistica sa che ogni suo quesito ha una soluzione pronta e “giusta”. Ma nel caos che è il mondo, ahiloro, le risposte esatte non esistono, se non nella malafede di colui che chiede… di essere ascoltato. Pare ormai un dato di fatto. - Che il minus habens abbia bisogno del genio quasi fosse una medicina per curare i sintomi di un’indisposizione - non è un pessimo slogan da sventolare sotto il naso di qualche “citazionista” domenicale, bensì una fenomenologia che poggia le proprie sensazioni, seppur molto esilmente, in quel che Braudel chiamava a suo modo -histoire événementielle-. Un qualsiasi discorso sull’uomo di genio e sulle sue facoltà, oggi, non potrebbe che prendere le mosse da colui che nell’immaginario collettivo ne è divenuto il simbolo. Steve Jobs, ovvero il genio “compreso” che allineandosi all’umanità celebra sé stesso sottoponendosi ad essa.
Jobs, ostentando l’implicito, sa che per indossare a buon titolo quella medaglia deve essere anzitutto compreso, poiché in democrazia è sempre la maggioranza a decretare le gesta degli uomini. In questo modo, vien da sé, la misura per valutare la sedicente genialità sta solo nell’utilità che l’umanità può trarre da essa. Un talento che vuole anzitutto essere visto e convalidato. Come dire: il grande ed il meglio deve essere contenuto e compreso dal tanto e dal peggio. E’ finita l’epoca delle Madonne che profumavano di violette il Mondo - ora i Santi devono finalmente puzzare come i pecoroni! -. Anche il pubblico quindi, appartenendo come il proprio genio di riferimento a quella categoria di uomini costantemente protesi verso l’esterno, può finalmente compiacersi del proprio aspro odore. Proiettati allo stesso modo nel mondo, entrambi sono capaci di vivere solo nell’opinione altrui, per cui hanno sviluppato un’iper-sensibilità capace di cogliere esclusivamente gli effetti che la loro attività esercita sull’altro. Se genio e pubblico sembrano avvinti nell’equivalenza di una comune realtà costitutiva - almeno morale –, allo stesso modo il fondamento di questa in-consistenza va forse rintracciato nel pensiero che, ormai unico e globale, ne ha ispirato equamente la moralità. Verso la fine del XIX secolo, Charles S. Peirce, William James e Chaucey Wright diedero vita ad un gruppo di discussione successivamente battezzato da alcuni suoi componenti Metaphysical. Loro non potevano ancora saperlo, ma il pragmatismo angloamericano cominciò a muovere i suoi passi e le sue fortune proprio a partire da quell’esperienza sino ad arrivare, poco meno di un secolo più tardi, a dominare il pensiero sociale dei nostri giorni (efficienza, produttività e competizione ne sono alcune declinazioni). Secondo un’idea di Wright, poi ripresa anche dal più noto Peirce, le idee scientifiche – ovvero le idee tutte, per questi miopi cultori della res extensa – debbono essere sottoposte sistematicamente non solo a controlli sperimentali, bensì anche ad un’analisi degli effetti determinati sulla realtà. Il concetto, mosso da evidenti ritrosie puritane, prevede infatti che le teorie e le credenze valgano a seconda della loro capacità di produrre effetti osservabili. Abituati come erano ad intercettare i segni della grazia di Dio nel quotidiano, i “pragmatici” hanno sublimato la predestinazione imperscrutabile in volontà tangibile. Anche il genius Jobs (genius, da geno, gigno, ovvero “produttore di vita” - una bella ironia se declinata all’informatica -) nel già epocale discorso delle beatitudini alla Stanford University mette a nudo, sotto il velo dell’incomprensione costruttiva, proprio questo recondito bisogno d’ascendenza puritana: la premura di venire riconosciuti per essere infine approvati dal “mondo”, per cui il povero, proprio in virtù della sua manifesta povertà, è e rimarrà in eterno un dannato, mentre la ricchezza, al contrario, diventa una prova della grazia divina. La “concretezza” quale unica misura in grado di comprovare il proprio operato! Questa ossessione verso l’esito di una palpabile popolarità viene a manifestarsi in maniera bizzarra proprio per contrasto (“La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita (…) – ma anche - la Pixar è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo”). Per il pubblico le cose sono invece molto meno complesse… egli ha bisogno “solo” di miti a cui ispirare il proprio vuoto! Se per James “la verità tende a coincidere con l’utilità”, la grandezza con cui il minus habens vaglia scrupolosamente sé e gli altri è invece il proprio tornaconto, laddove tale convenienza si caratterizza, in definitiva, nella reiterata (alias – “abbiate fiducia!”) ricerca di palliativi che lo aiutino a volgere lontano da sé stesso, per trovare sempre nuovi recinti in cui placidamente pascere. Se quindi il de-vertere pare essere la sola unità di misura valida per quest’uomo paralizzato di fronte all’esistere, la primaria occupazione della sua vita non potrà che esaurirsi nella costante ed affannata ricerca verso nuovi ri-medi in grado di lenire le fatiche, le angosce e le inquietudini della vita stessa. Per entrambi questi topoi umani, o più genericamente per tutti coloro che non posseggono una personalità ed al contempo sperano in un anonimato senza fine, il successo è l’unico modo per procurarsene una, benché fittizia. Anche il compianto uomo Apple, c’è da giurarci, verrà presto inghiottito ed espulso dallo stesso meccanismo che ipocritamente lo ha reificato. Quello della convulsa velocità che, rendendo ogni cosa un transitorio ed effimero sbattere di ciglia, abbisogna continuamente di nuovi prodotti per sostenere quell’impersonale simulacro che è diventato l’uomo. Un uomo “al passo coi tempi”. Anche Cromwell alla fine resuscitò dal sepolcro… per essere impiccato.