Magazine Lavoro
«Con la presente intesa le parti intendono dare applicazione all’accordo del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro». Così comincia il protocollo d’intesa tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil firmato lo scorso 1° giugno. Un accordo che viene detto sulla rappresentanza sindacale, ma che in realtà, anche ad una lettura approssimativa si dovrebbe più correttamente definire sull’esigibilità dei contratti. A conti fatti si tratta di un accordo per inibire le lotte dei lavoratori. Solo in funzione di ciò è inserito nell'accordo la parte sulla rappresentanza. D’altronde l’incipit dell’intesa tra padroni e sindacati confederali è palese, con il suo richiamo a quei nefasti accordi del 28 giugno 2011 che tante critiche mossero sia in ambiente sindacale che politico. Forse non serve nemmeno ricordarlo, ma quegli accordi furono la ossequiosa risposta che Confindustria e Cgil, Cisl e Uil diedero all’arroganza di Marchionne. Non per niente Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria al tempo dell’intesa del 28 giugno 2011, affermava che quella sarebbe stata «una risposta alle esigenze corrette che la Fiat manifesta». Quella stessa intesa aprì la strada, meno di due mesi dopo, all’articolo 8 della cosiddetta “manovra di Ferragosto” che permette alle aziende di derogare a Ccnl e leggi.
D’altronde, come nei peggiori film, il finale era scontato. È vero che l’unica parte degli accordi del 28 giugno richiamata nell’intesa sindacale del 30 aprile (quella, per intenderci, che Cgil, Cisl e Uil hanno sottoposto agli industriali e che costituisce la base di partenza dell’accordo del 1° giugno) è quella relativa all’allegato, dove l’esigibilità dei contratti non è trattata. Ma è vero pure che l’intesa sindacale non metteva affatto in discussione l’accordo del 28 giugno, come in una sorta di “silenzio-assenso”. E comunque, era chiaro che il tema della rappresentanza non poteva essere disgiunto da quello dell’esigibilità dei contratti, unica strada considerata percorribile nella ricerca dell’unità sindacale. Un’unità esclusivamente pattizia. Inutile ora stare a puntualizzare, come fa il segretario generale della Fiom, Landini che occorre una legge sulla rappresentanza. Di fatto, nello stesso modo in cui l’accordo del 28 giugno 2011 aprì la strada all’abominevole articolo 8, così quest’accordo può aprire la strada ad una legge sulla rappresentanza che prosegue sul solco tracciato dall’intesa del 1° giugno: a contrattare con i padroni sono ammesse solo le organizzazioni sindacali che rinunciano a lottare.
Nello specifico, l’accordo prevede che sono «ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle Organizzazioni Sindacali» che, oltre a superare una doppia soglia di sbarramento, siano «firmatarie del presente accordo». Ma questo prevede la «piena esigibilità» degli accordi sottoscritti dalle parti. Non solo: per contrattare i sindacati devono accettare la previsione di «clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi stabiliti con la presente intesa». In poche parole: niente scioperi e sanzioni per chi si oppone agli accordi sottoscritti. Perché, nonostante a parole ci si possa opporre alla previsione di sanzioni, non è chiaro in quale modo si possa garantire diversamente l’esigibilità degli contratti quando ci sia qualcuno che non è d’accordo. Come se tutto ciò non fosse già sufficiente ad inibire le lotte dei lavoratori, l’accordo del 1° giugno non specifica quali siano le clausole di raffreddamento. Si afferma invece che queste debbano essere definite di volta in volta negli specifici contratti collettivi nazionali di categoria. Non bisogna avere una fervida immaginazione per considerare la possibilità che per le categorie più combattive si prevedano «procedure di raffreddamento» più dure. È un classico e si sintetizza con la ben nota locuzione “divide et impera”.
Di fronte a questo scenario, rallegrarsi per il fatto che i contratti collettivi nazionali debbano essere sottoscritti da «Organizzazioni Sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza» e «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice» (ma le cui modalità di consultazione non sono definite), suona quantomeno grottesco. E tanto per fare un esempio di ciò che possa significare, basti ricordare gli accordi separati Fiat, anche questi approvati a maggioranza semplice dai lavoratori chiamati al referendum.
In conclusione, è vero: l’accordo che Confindustria e Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto è un passo avanti e di portata storica. Quell’accordo segna infatti un avanzamento dell’egemonia padronale e storicamente intende determinare la fine del sindacato dei lavoratori. Con l’accordo del 1° giugno 2013 si vuol far tornare in scena il sindacato corporativo. Niente di nuovo, per carità: è roba vecchia quanto il patto di Palazzo Vidoni.
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