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1000 mostre: Wassily Kandinsky, Galleria d’arte del Cavallino, Venezia 6 – 19 settembre 1951

Creato il 13 novembre 2011 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo

1000 mostre: Wassily Kandinsky, Galleria d’arte del Cavallino, Venezia 6 – 19 settembre 1951MAE Milano Arte Expo re-inaugura 1000 mostre dal dopoguerra a oggi. Kandinsky, Venezia 1951. Testo di Luca Pietro Nicoletti - Il 6 settembre 1951, a Venezia, Carlo Cardazzo inaugura la prima mostra italiana del dopoguerra sull’opera grafica di Kandinsky. Il pittore russo era già morto dal 1944, e la Biennale di Venezia, nel 1950, gli aveva dedicato una grande sala retrospettiva, che valeva come una consacrazione ufficiale in quella che era ancora la più importante manifestazione internazionale per l’arte contemporanea. Cardazzo, in cui era costante la tensione verso l’avanguardia e il desiderio di arrivare prima degli altri con proposte espositive inedite, non si era fatto sfuggire l’occasione di cavalcare l’onda del successo lagunare per proporre anche lui, nella stessa città, una mostra del genere. I tempi erano molto cambiati da quando i Ghiringhelli, negli anni Trenta, avevano proposto a Milano, alla Galleria del Milione, la prima mostra italiana del pittore russo: la novità non era stata recepita se non da uno sparuto gruppo di artisti particolarmente ricettivo ed incline al mondo astratto. >

Ma nemmeno a Parigi, del resto, la prima mostra di Kandinsky, anche questa nella prima metà degli anni Trenta, era andata bene; in quegli anni il mercato parigino aveva occhi soltanto per i cubisti, e non c’era spazio per proposte alternative.

Nel 1951, invece, una volta che la vicenda umana del pittore si era conclusa, Kandinsky era un maestro riconosciuto, meritevole, appunto, di un riconoscimento mondiale (e tre sue grandi tele si erano già viste, sempre a Venezia, nel 1948, nella mostra della Collezione Guggenheim).

1000 mostre: Wassily Kandinsky, Galleria d’arte del Cavallino, Venezia 6 – 19 settembre 1951

Ma Cardazzo non era solo in questa occasione: come in molti altri casi, infatti, poteva avvalersi di validi collaboratori che gli consentissero di ottenere opere e artisti altrimenti inavvicinabili. Nello specifico, il “gancio” era stato Gualtieri di San Lazzaro, scrittore e raffinato editore d’arte italiano che viveva a Parigi, con qualche interruzione, dal 1924. Qui si era affermato grazie alle preziose monografie d’arte delle edizioni Chroniques du jour, che gli avevano guadagnato la stima di Picasso, Matisse e di altri maestri. Fra questi, alla mostra del 1930, era riuscito ad avvicinare Kandinsky, che avrebbe rivisto poi solo qualche anno più tardi, ma che sarebbe stato decisivo per le sorti di San Lazzaro.

Nel 1938, infatti, quest’ultimo dava vita ad una rivista destinata ad aver fortuna, “XXe siècle”, che si caratterizzava per la compresenza di testi critici e litografie o grafiche originali, che ne facevano una rivista che univa la critica militante e l’oggetto d’arte: il libro, secondo San Lazzaro, doveva essere un oggetto da guardare con lo stesso piacere con cui si apprezza un dipinto.

Kandinsky non aveva esitato a dare il suo sostegno all’impresa di quel giovane italiano, allora poco più che trentenne: il primo numero della rivista, infatti, si apriva con un bell’articolo del pittore russo sull’art concret; e nel secondo, San Lazzaro, poteva vantare la presenza di sei xilografie del padre dell’astrattismo impresse dai legni datigli direttamente dal pittore.

Con Kandinsky, dunque, San Lazzaro, aveva maturato una grande familiarità, di cui sono testimonianze alcune bellissime pagine di Parigi era viva, il romanzo autobiografico “in terza persona” in cui l’editore italiano, sotto le mentite spoglie di Silvio, raccontava vent’anni di vita artistica parigina. Già nella prima edizione del romanzo, nel 1948, si poteva leggere una bella descrizione dello studio del pittore, ampliato poi nella seconda edizione del libro, nel 1966 (ora riedito da Mauro Pagliai di Firenze, 2011, http://www.mauropagliai.it/asp/sl.asp?id=5503):

Dalla sala da pranzo passarono nell’atelier del pittore, dove l’ordine era anche più perfetto. Le tele erano collocate in speciali armadi e i colori che l’artista fabbricava da sé erano raccolti in alcuni vasetti disposti su una mensolina, come vasetti di marmellata. Sui muri bianchissimi le mosche non s’erano mai posate. Silvio pensò ai tre atelier di Soutine – sudice spelonche – e anche a quello di Picasso, con i mucchi di cicche negli angoli – in cui nessun essere umano era mai entrato munito di una scopa, e comprese perché una macchiolina d’inchiostro fosse diventata per Kandinsky una cosa viva, un’illuminazione: il punto. Solo quell’ordine esemplare del suo spirito, del suo organismo e dell’ambiente in cui viveva, gli aveva potuto consentire di chinarsi con tanto amore sul più piccolo dei segni formali: il punto. “Se la nostra è l’epoca del microbo” disse Silvio tra sé “e l’uomo è ancora tollerato, perché è un ottimo propagatore di microbi, il vero pittore della nostra epoca è Kandinsky”. Ma scacciò quel pensiero che certamente avrebbe rattristato l’artista per il quale egli sentiva già tanta ammirazione e un cosi vivo affetto. Quel punto, evidentemente, Silvio sentiva di amarlo, soprattutto perché gli ricordava Vivaldi. Solo Vivaldi avrebbe potuto dipingere i quadri di Kandinsky del periodo parigino. Kandinsky, però, non era solo il musico del punto magico, che un flauto inseguiva per le vie lattee del cosmo. Ch’egli avesse inventato l’arte astratta in Germania, non c’era da stupirsi. L’episodio del quadro rovesciato sul cavalletto era forse un pochino ridicolo, come quello della mela di Newton. All’autore della Spiritualità nell’arte erano bastate, forse, due righe di Hegel: “Ciò che manca alle opere nate dall’imitazione, non è qualcosa di secondario, ma l’essenziale, e cioè la spiritualità”. In Francia, chi aveva mai letto Hegel? Focillon? Elie Faure? In Francia, tutta la critica d’arte moderna era nata da una costola di Baudelaire, come Eva da quella di Adamo. E i pittori, salvo qualche rara eccezione, si contentavano di dipingere. Non leggevano nulla.

San Lazzaro, dunque, era la persona giusta per Cardazzo per arrivare all’opera di Kandinsky: dopo la morte del pittore, infatti, egli aveva mantenuto rapporti amichevoli con Nina, la seconda moglie di Kandinsky, che rimase sempre fra le persone più vicine all’editore italiano.

Non a caso, proprio in quegli anni, un altro amico italiano di San Lazzaro, lo scultore Marino Marini, lo aveva consigliato di sposare Nina: in questo modo avrebbe risolto gli affannosi problemi economici che lo assillavano e minavano di continuo la vita di “XXe Siècle”.

Se non arrivo a sposarla, certo San Lazzaro era comunque la persona giusta per proporle una mostra di grafica in una galleria di Venezia che avesse il prestigio del Cavallino.

L’evento avrebbe avuto successo, ed anche una discreta stampa.

Non sappiamo con precisione che cosa vi fosse esposto: per la mostra fu fatto solo un piccolo invito con una riproduzione e un conciso ma pregnante testo di San Lazzaro:

Per la prima volta in Italia ha luogo l’esposizione retrospettiva dell’opera grafica di Kandinsky, così importante nelle sue diverse espressioni e nella tecnica perfetta. Nelle incisioni in legno, su linoleum, su cuoio e nelle litografie che ora sono esposte alla Galleria del Cavallino di Venezia, si trovano le tracce di quella evoluzione che portò Kandinsky dal figurativo al concreto. Alle incisioni in nero di Kandinsky si possono adattare le note di Willy Grohmann che scriveva a proposito dei disegni: «Il fatto che colpisce più fortemente lo spettatore è l’irrealtà dell’arte grafica, fatto che parrebbe qui dare risalto nel modo più pertinente alle intenzioni di un’arte riposante sull’astrazione. È che il segno, per la sua stessa natura, ha qualcosa di più immateriale del colore, qualcosa di più libero, riguardo al piano e allo spazio». Ma se si confrontano le incisioni in nero con quelle a colori, dopo il «Lever de Lune» del 1902 sino ai commoventi «Petits Mondes» del 1923, non si può che ammirare lo sforzo fatto dall’artista per togliere ogni materialità al colore. Durante questa conquista della spiritualità, nell’opera grafica come nei dipinti, il disegno ha senza dubbio preceduto il colore, ma a poco il colore ha seguito lo stesso movimento (le tavole di Klänge sono del 1913) e Kandinsky ha potuto raggiungere felicemente quella sintesi che era il suo scopo più alto. La sua arte, nata dalla terra, diventa così interamente aerea. Per caratterizzare l’evoluzione di Kandinsky sarebbe più giusto dire che è andata «dal materiale allo spirituale» invece che «dal figurativo al concreto», perché questi termini non hanno che un significato polemico, mentre l’opera di Kandinsky si situa completamente ben al di là della polemica, nel puro clima spirituale che raggiungono solo i più grandi. Wassily Kandinsky. Opera grafica, Venezia, Galleria d’arte del Cavallino, 6-19 settembre 1951.


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