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“12 anni schiavo”: l’analisi prima dell’emozione

Creato il 10 marzo 2014 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

12-years-a-slaveMiglior film agli Oscar, ai Golden Globe e ai Bafta 2014. Il mondo dei premi “che contano” è unanime nell’incoronare 12 anni schiavo come il film più importante dell’anno. Certamente è stato uno dei più contesi dalle grandi kermesse (il Festival di Toronto l’ha soffiato alla Mostra del Cinema di Venezia). Senza dubbio un grande film, non so se il migliore dell’anno, certamente non il migliore di Steve McQueen. Così come non lo reputo né un capolavoro né un film che avrà imperitura memoria.
Un’opera solida, granitica, stratificata. Con delle maglie così serrate da risultare straordinariamente dense a livello dell’analisi contenutistica storica e sociale della schiavitù, un po’ sfilacciate nel vero coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Di fronte anche ad un produzione che vede in prima fila Brad Pitt, Steve McQueen ha ridimensionato la sua indole di “cineasta eversivo”, di chi con Hunger colpiva alle spalle e al cuore. La personalità registica presente nel film d’esordio è qui scomparsa. Una scelta di campo compiuta per arrivare ad un pubblico più ampio, diffuso, più proteso verso il “commerciale”, col fine di portare a più persone possibile una storia così incredibile da essere vera. McQueen punta alla verità dell’immagine, non aggiunge orrore a quello congenito nella schiavitù. Si limita a mostrare il contrasto tra la natura in cui agiscono schiavi e padroni e l’inumana gravità delle azioni che accadono in quegli sterminati campi di cotone. L’analisi del rapporto schiavo-padrone non è mai stata così lucida, limpida, diretta, così come la creazione di quella dimensione kafkiana nella quale s’infanga la libertà di un uomo libero, imprigionato in uno status sociale e mentale in cui il riscatto passa in secondo piano rispetto alla sopravvivenza.
Bravissimo l’attore protagonista Chiwetel Ejiofor, ma Michael Fassbender è gigantesco, così grande da rubargli letteralmente la scena. La prova del pupillo di McQueen stacca così tanto sull’altra da squilibrare quasi il baricentro della storia e la nostra attenzione da Solomon Northup al padrone Edwin Epps.

Insomma, 12 anni schiavo non dilania e non riempie gli occhi come ci s’aspetta. E’ come se McQueen avesse deciso di fare un passo indietro per lasciar parlare le immagini come un documento su cui riflettere. Su questo piano, anche la colonna sonora di Hans Zimmer è fiacca, non incide né epicizza la storia. L’analisi si fa così precisa da risultare un attimino prolissa, così “cerebrale” da colpire più il lato morale dello spettatore che quello emotivo. I titoli di coda hanno dello sconvolgente, ma proviamo più un’indignazione “civile” che non uno sdegno empatico per quanto successo a Solomon come a molti altri.

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