“12 anni schiavo”: la trilogia del corpo non si chiude in bellezza

Creato il 25 febbraio 2014 da Lundici @lundici_it

C’è una scena in “12 anni schiavo” che pare forse la più importante. E’ quella dove l’odioso personaggio interpretato da Paul Dano tenta di impiccare ad un albero il protagonista, Solomon Northup. Dano viene fermato ma il nostro protagonista non viene liberato dal cappio intorno al collo: solo il padrone lo farà. Così aspetta, Solomon. Aspetta per ore, agonizzante, dolorante, in punta di piedi sul terreno fangoso, mentre gli altri schiavi si svegliano e iniziano a lavorare, parlare, pregare.

 ”12 anni schiavo” (tit. orig: “12 year a slave”
Regia: Steve McQueen
Interpreti:  Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt
Genere: Drammatico, storico
Produzione: USA
Premi: nominato a 9 Oscar, vincitore del Golden Globe come miglior film drammatico

Trilogia del corpo di Steve McQueen: “Hunger” (2008), “Shame” (2011), “12 anni schiavo” (2013)

Consigliato a: chi apprezza i drammi storici, a chi si accontenta di pochi minuti di Brad Pitt
Sconsigliato a: chi era rimasto folgorato da Hunger, a chi interessa solo Brad Pitt

Non è la scena più significativa perché mette in evidenza la banalità del male umano che diventa routine, assuefazione costante per le persone vittime di soprusi al centro della vicenda “schiavitù”. Perché quest’idea, perno centrale della pellicola di McQueen, viene ossessivamente ripetuta qui come in qualsiasi altro film (si può sostituire la schiavitù con la Shoah, con una dittatura violenta, con una guerra intestina o con un qualsiasi altro orrore).

E’ la scena più importante perché rappresenta il collegamento simbolico tra il film e lo spettatore. Perché il male, come spettatori, non lo tocchiamo se non con lo sguardo. Nessuna lacrima versata, nessuna empatia. Carne maciullata da frustate, donne violentate, madri divise dai figli. Si, e poi?

La trilogia sul corpo di McQueen si conclude con quello che è il suo film meno riuscito, incapace di ritrovare quell’ordine formale alla base di “Hunger” che riusciva a mescolare mente e pancia. Non bastano luci perfette e inquadrature eleganti e pittoriche per fare un film “eticamente” importante. Il regista qui è solo capace di stimolare un’indignazione da salotto, uno scandalo passeggero e non di sconcertare le certezze e l’animo di chi guarda.


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