Arrivo in ritardo di un giorno nell’omaggiare un evento sportivo particolarmente sentito nella mia splendida città, Verona. Ieri, infatti, 12 maggio, si ricordava e celebrava il trentennale di uno storico scudetto, quello dell’Hellas Verona guidato magnificamente in panchina da quel genio umile e modesto di nome Osvaldo Bagnoli e in campo da un gruppo unito, coeso, fatto di uomini veri oltre che di giocatori fantastici come Fanna, a cui ho dedicato nello specifico questo mio breve ricordo “raccontato”, Tricella, Elkjaer, Briegel, Di Gennaro, Volpati, Galderisi, Marangon, Garella, Ferroni, Fontolan, Sacchetti, Bruni e tutti gli altri eroi di quello splendido ciclo vincente. Un caso rimasto unico nella storia del calcio tricolore recente, visto che nessuna squadra emanazione di una città non capoluogo di provincia dal dopoguerra in poi è mai riuscita a conquistare il primo posto in classifica. Una squadra che, indipendentemente dal tifo, ha saputo ritagliarsi uno spazio nel cuore di molti appassionati sportivi, non solo italiani, proprio per la portata eccezionale dell’evento, e forse perchè per molti ha rappresentato la fine di un’epoca più genuina, dove imprese del genere, seppure non di tutti i giorni – altrimenti non staremmo qui a darne risalto a distanza di 30 anni – potevano ancora essere realizzate con la forza delle idee.
Personalmente poi sono cresciuto con questo mito, avendo avuto però la fortuna e l’opportunità di vivermi in presa diretta quelle grandi emozioni, tanto che al Verona di quegli anni associo alcuni dei miei più bei ricordi di bimbo.
Vi dedico con piacere quindi questo mio racconto incentrato su uno dei miei veri miti d’infanzia calcistica, il grandissimo PIERO FANNA!
PIERO FANNA: IL MIO MITO DELL’INFANZIA, QUANDO IL CALCIO ERA ANCORA POESIA.
Parlare di calcio in Italia è consentito a tutti, è quasi un effetto contagioso che va a intaccare anche gli insospettabili, specie al varco di manifestazioni importanti, quando davvero anche la “nonnina” della casa di fianco si ritrova ad assistere ad esempio a una finale Mondiale.
Ci sono tante tipologie di “tifosi”: gli asettici, coloro che magari stanno pensando a tutt’altro e gliene frega anche poco, ma che a un certo punto, tra un cocktail annoiato e l’altro, ti chiedono “che ha fatto oggi la Juve?”. Quelli al contrario che mi piace definire “empatici” (o patologici, per dirlo più prosaicamente come farebbe la mia ragazza), che si rovinano il weekend se la loro squadra del cuore ha perso; gli immancabili vecchietti del Bar Sport (nei paesi di provincia è ancora probabile trovarne qualcuno di quelli narrati da Benni) che disquisiscono di tattica; ci sono gli ultras, ovviamente, e i ragazzi di ultima generazione che passano il tempo su you tube e credono di saperne perché vedono una giocata di un oscuro colombiano e magari ignorano che è appena stato promosso in A per la prima volta il Sassuolo.
Io rispetto tutti, ma provo ad andare oltre, cercando ancora quel lato poetico che posso riscontrare nelle piccole storie, tipo quella del Trapani che, partito dai dilettanti, con un tecnico preparatissimo e gente autoctona, dopo aver smaltito la delusione per la sconfitta dei play off 12 mesi fa, quest’anno si è superato, arrivando direttamente in serie B.
La poesia e la pura emozione la ritrovo però se chiudo gli occhi e torno bambino, io che ho avuto la possibilità e la fortuna di assistere a un evento che rimarrà presumibilmente irripetibile: lo scudetto dell’Hellas, l’ultima vera provinciale in grado di issarsi in cima alla classifica e vedere gli Dei del pallone da vicino.
L’Hellas è diverso da tante squadre di provincia, il senso di appartenenza è davvero forte. I bambini tifano gialloblu, non le big come accade spesso altrove. Resiste il mito di quella squadra scudettata, ma non solo: chiedete a chiunque di Zigoni e vi risponderanno, dalla massaia, al pensionato, al tredicenne. Io, dicevo, ho iniziato presto a frequentare gli stadi, precisamente a 5 anni, grazie alla passione di mio padre: erano già anni buoni, il Verona, da neo promosso, lottò a lungo per lo scudetto, per giungere infine quarto; l’anno dopo, la scheggia di poesia fu rappresentata dal fenomenale e sfortunato Dirceu e da Penzo (mio fratello Nico fu chiamato così in suo onore). Ma il mio ricordo speciale lo voglio dedicare al mio idolo di quella squadra di campioni veri, che ho avuto la fortuna di conoscere: Piero Fanna.
Fenomeno in pectore (veniva dall’Atalanta, – e da dove sennò -, si parla sempre troppo poco di un vivaio che davvero educa e fa crescere bene gli atleti) e giunse alla Juve insieme ad altri giovani in quegli anni, come Cabrini, Marocchino e Virdis. Le qualità tecniche erano evidenti, forse meno la personalità. Ai posteri è ormai passato il concetto che non avesse legato con il mitico Trap, che lo costringeva a un lavoro sfiancante di recupero, ma in realtà con Bagnoli all’Hellas non è che Pierino si risparmiasse, anzi, correva come un forsennato. E’che il grande Osvaldo aveva saputo toccare le corde giuste di un animo sensibile, quello di Piero. E a quanto pare ci riuscì pure con altri che sembravano onesti mestieranti ma che lui contribuì a rendere campioni, come Garella o Volpati, e tutti loro a distanza di quasi 30 anni, riconoscono questo gran valore al loro allenatore.
Elkjaer e Briegel infiammavano il popolo, ma Fanna fu il vero leader, silenzioso, timido… del resto a lui non occorreva alzare la voce o fare il bullo, bastava dargli un pallone tra i piedi e, destro o mancino indifferentemente, partiva sulla fascia che era un piacere, seminando avversari (memorabile una sua azione contro il Napoli, da manuale del contropiede) e inventando assist a getto continuo. Il look negli anni 80 non aveva l’importanza di oggi, niente tatuaggi o creste, e come dice bene Pecci nel suo bel libro riguardo Graziani, anche per Fanna l’acconciatura poco accattivante poteva fuorviare. Il riporto non era sinonimo di estetica, e quindi automaticamente vederlo correre ti dava l’idea fosse un “generoso”, quando invece era classe e tecnica pura, da top player come si direbbe ora. Una persona umile, che si scherniva e lo fa ancora davanti ai complimenti. Ho avuto modo, svariati anni dopo di intervistare il figlio di Piero, Marco. Classe ’86, dalle giovanili dell’Hellas era passato al Parma, venendo convocato spesso nelle selezioni giovanili, fino all’Under 17. Era grande amico di Pier Mario Morosini, di cui mi riportò un commosso ricordo. Marco tentò una carriera professionistica che sembrava in effetti alla sua portata; giocò nell’ex serie C alla Reggiana e al Portogruaro, ma poi finì nei dilettanti. La sua parabola assomiglia a quella di molti (seppur) talentuosi figli d’arte. Diventa quasi automatico il confronto, specie se si agisce nella medesima zona di campo. E per quanto fosse discreta la presenza del babbo, era pur sempre ingombante come ombra. Piero aveva ben poco da invidiare a Bruno Conti, per dire. In ogni caso, tra corsi e ricorsi storici, Marco ancora si diverte e dispensa gran giocate nello Zevio, agli ordini di Gigi Sacchetti, altro grande scudettato del Verona! Dalle parole di Marco, a maggior ragione, ho colto quanto fosse genuino e profondo lo spirito che animava quei campioni, capaci di ritrovarsi tutti la notte del 31 dicembre 1984 con moglie e figli per custodire nel cuore una speranza che davanti ai microfoni Rai non si poteva manifestare nella sua vasta portata, ma che tra amici veri si poteva condividere, come si fa con i sogni costruiti insieme nel tempo.
E’ indubbio però che non fossero solo le partite o le giocate dei calciatori a regalarmi queste gioie e questi ricordi. Apro una parentesi più personale, in quanto questi sono anche i migliori ricordi che lego a mio padre, figura carente negli ultimi anni. Se la mia passione è nata e si è sviluppata nel tempo, lo devo principalmente a lui. E’ stato per quasi 30 anni presidente di un calcio club di una piccola frazione (Menà di Castagnaro, poco più di 1000 abitanti, all’estremo sud della provincia di Verona, al confine con le limitrofe Rovigo e Padova). Eppure è riuscito a coinvolgere un sacco di persone, arrivavamo allo stadio col pullman strapieno, fermandoci in tutti i paesi. Ero orgoglioso di lui per come gestiva, come era rispettato, per come si poneva, mai sopra le righe: era un riferimento per tutti. Mi ha trasmesso tanti valori. L’unica volta che lo vidi esultare come un pazzo fu al 90° di un Verona – Sampdoria, anno 89-90, in cui retrocedemmo con una squadra raffazzonata ma dignitosa, al termine di una lunga ricorsa, culminata in una trasferta a Cesena (in cui vidi le tribune penzolare letteralmente sopra di noi che stavamo in parterre!). Avevamo dominato la gara, vincevamo 1 a zero e questo risultato metteva l’Hellas davvero nelle condizioni di giocarsi un’insperata sin lì salvezza, quand’ecco che all’ultimo minuto l’arbitro fischiò un rigore inesistente per i blucerchiati. Lo spocchioso Mancini si diresse con moto di sfida al dischetto, aizzando i tifosi gialloblu ma un giovanissimo Peruzzi respinse prodigiosamente. In quel momento mio padre sbrocca, si alza, corre verso la ringhiera e si mette a insultare il Mancio. Grandissimo! Di questo Hellas, che fu costruito con molti carneadi in seguito a un fallimento che fece smantellare una buona squadra (quella dei Caniggia, Troglio, Bortolazzi, Pacione) rimanevano guarda caso due pilastri: Bagnoli e Piero Fanna.
Da bimbo col calcio club certi riti erano davvero irrinunciabili, il caffè nel solito bar, le ultime chiacchiere, Ugo che richiede ai giocatori il mordente (e io che non sapevo davvero cosa volesse dire ma più passavano le settimane e meno riuscivo a chiederlo), Ivo e Loris che indossavano fieri le sciarpe della Viola, società gemellata e che erano stati a Brema per la storica Coppa Uefa e ogni volta ingigantivano le balle, specie quelle riguardanti rimorchi di bionde tedesche accondiscendenti. Arrivavamo presto, e mi piaceva osservare, e provare ad aiutare mio papà e mio zio Daniele mentre allacciavano fieri il nostro striscione “Calcio Club Menà”. Avevamo una posizione davvero strategica e capitava molto spesso durante “90° Minuto” che lo inquadrassero. Ovviamente non esistevano i cellulari e nemmeno facevo tempo a telefonare agli amici calciofili del cuore (seppur juventini o milanisti, come Dennis o Mirco) per dire loro di sintonizzarsi e stare attenti. E poi i paninazzi con salsiccia e peperoni fuori dallo stadio,che si vinca o che si perda. Io che al rientro in corriera, ormai divenuto mascotte ufficiale, prendevo il microfono e aggiornavo le classifiche dalla A alla C/2 dopo aver memorizzato sul tabellone dello stadio i risultati finali. Avevo 7 anni, la memoria forse è il mio unico pregio, e che Dio me la conservi buona. Le trasferte soprattutto, con Nanni che mentre faceva delle manovre pericolosissime, tra tornanti infiniti, si girava verso di noi, dicendoci “guardate che panorama!”, le fermate lungo il tragitto e gli immancabili pic-nic, a base di pane e salame casalin e vino rosso. Era qui che entravano in gioco gli amici di mio padre,quelli della compagnia del paese. Paolo, Uber, Ceschin, Vanni, Ciano menavano le danze, per i bambini c’era sempre trattamento di favore, ovviamente! Non esistevano le prove palloncino, per fortuna! I primi cori imparati a memoria, mi rimase impresso quello dei caldissimi tifosi del Pisa all’Arena Garibaldi (“Mi innamoro solo se/vedo vincere il Pisa/Forza Forza Grande Pisa), e i viaggi impervi a Udine, Como, dove presi l’influenza a poche giornate prima dello scudetto. Gira la leggenda tra i muri di casa Gardon che la”famosa tosse” (o “raspeghin” per dirla correttamente in dialetto veneto) che ancora mi contraddistingue l’abbia contratta quel pomeriggio vicino al Lago citato dal Manzoni. E poi i ritiri, che non erano come adesso. Mi piace sottolineare l’impegno dei coordinatori dei calcio club, mai menzionati ma fondamentali per i rapporti. A Verona ad esempio Carla Riolfi ha fatto tanto per i tifosi, organizzando degli incontri splendidi. Ricordo con affetto anche Saverio Guette, responsabile marketing, morto prematuramente, un signore. In quei momenti i giocatori, gli allenatori stavano davvero con noi, mangiavano nei nostri tavoli, si tirava qualche calcio assieme. Ho tante foto in cui sono in braccio a Tricella, Fanna, Volpati, persino a Nanu Galderisi, poco più alto di me in fondo. Uomini semplici, pieni di valori, non se la tiravano per niente. In tempi più recenti (ma si parla comunque di 19 anni fa), un bel ritiro fu quello con Bortolo Mutti, persona affabilissima, disponibile e cordiale. Mio padre è suo coetaneo e sembravano conoscersi da una vita, io fraternizzai con un giovanissimo Damiano Tommasi che, 17enne, era stato aggregato alla prima squadra. Era meno dotato tecnicamente rispetto agli altri giovani Lamacchi, Cammarata o Piubelli (che smise a 21 anni per un serio infortunio, dopo aver giocato titolare anche in una fortissima Under 21), ma era serio, si applicava tantissimo, ero sicuro sarebbe arrivato ai massimi livelli, senza perdere l’umiltà e la voglia di migliorarsi. Anche Malesani era uno spettacolo, veronese come noi, si apriva tantissimo, parlava in dialetto, ma emanava una professionalità incredibile, in campo è proprio un maestro.
E’ innegabile quanto le esperienze personali possano connotare i ricordi, magari trasfigurandoli ma, pur rimanendo – ormai anche da addetto ai lavori – nel vivo di questo sport e seguendolo ancora molto, penso che qualcosa si sia perso, in favore di logiche diverse, più mirate alla spettacolarizzazione globale ma che non necessariamente combaciano con lo spettacolo che giunge al cuore degli spettatori, con le emozioni pure e genuine che il calcio può ancora saper regalare. Ma occorre tenere viva la memoria, rispettare il passato, senza per forza scadere in nostalgismi. Poi, se uno lo è per natura – come il sottoscritto – è fregato e la ricerca del “bello” può far arretrare i calendari di anni, secoli, tanto da farmi rimpiangere epoche che ho solo letto sui libri o visto attraverso ingiallite fotografie o immagini velocizzate (come nel caso dei Mondiali degli anni 30 o dell’Epopea del Grande Torino).
Non c’è niente da fare, se il calcio non fosse accompagnato da un puro sentimento non sarebbe questo splendido volano che fa da cornice a campionati di mezzo mondo.
E allora lasciatemi smettere i panni del giornalista e fatemi gioire alla risalita del mio Hellas nel calcio che conta! Come direbbe il mitico cronista gialloblu Roberto Puliero “Alè Alè Bum Bum Bum! Viva Viva Viva”.
(Gianni Gardon)