Eccomi, ce l’ho fatta. Finalmente sono riuscita a fermarmi davanti alla tastiera per buttare giù due parole su 12 Years a Slave. Dato che il tempo scorre incessantemente, come l’acqua e le ovvietà che mi escono dalla bocca, corro subito al punto cercando di non perdermi in digressioni inutili e banalità sconcertanti.
12 Years a Slave è un capolavoro. Punto.
E potrei anche fermarmi a quest’affermazione, perché credo che chiunque abbia visto il film concorderà con queste parole, per i motivi più disparati… Ci sarà chi ne ha amato la regia, chi è stato folgorato dalle capacità interpretative dell’intero cast e chi ha apprezzato la sceneggiatura, la fotografia o addirittura le musiche, o i grandiosi silenzi, della pellicola… Ci sarà chi ne tesse le lodi per aver avuto il coraggio riscrivere la percezione dello schiavismo raccontando la storia dal punto di vista di chi è sottomesso e chi si soffermerà sulla ridefinizione dei capisaldi del genere attraverso un’accezione assolutamente neutra nella propulsione della vicenda…
La cosa più bella e sorprendente è che tutte queste persone, e tutti questi pensieri, sono perfetti per descrivere 12 Years a Slave, un film che riesce a fondere ai massimi livelli un sistema narratologico universale, una tematica delicatissima (e in grado di coinvolgere esponenzialmente lo spettatore) e una regia di estrazione autoriale purissima.
Sul talento di Steve McQueen penso non ci sia alcun dubbio, ma permettetemi di ripetere ancora una volta la mia ammirazione nei confronti di un cineasta che riesce ad elevarsi costantemente, film dopo film, inquadratura dopo inquadratura… La sua capacità di mettersi al servizio del racconto è probabilmente ancora più percettibile in quest’ultima opera: dosando con minuzia ed attenzione gli slanci registici più ispirati, si raggiunge qui un perfetto equilibro tra il pathos estremo e il movimento e la presenza della macchina da presa, un’abilità straordinaria ma anche una fermezza brutale nel documentare la tortura inflitta all’uomo di fronte all’indifferenza generale.
E’ sotto questa imponente guida e traccia artistica che si muovono tutte le sfumature umane dei personaggi contenuti nella narrazione: un campionario vastissimo di ritratti, che, seppur compressi all’interno della natura episodica della pellicola, risultano volti e corpi sfaccettatissimi attraverso cui modulare la parabola di Solomon.
Quella di Chiwetel Ejiofor è un’interpretazione mimetica davvero impeccabile, convincentissima nel portare sullo schermo un personaggio di tale complessità, la cui umanità vacilla costantemente in un limbo di stimoli, pensieri, momenti di rassegnazione e rivalsa intima e personale. La profondità negli sviluppi di caratterizzazione è un particolare che ho apprezzato moltissimo, soprattutto considerando quanto sia semplice cadere nell’ottica restrittiva buoni/cattivi in un simile contesto… Persino l’Edwin Epps di Fassbender va ben oltre il mero stereotipo piatto dello schiavista cattivo, dando vita ad un ruolo a tinte foschissime, furioso vortice di sfumature umane ed interpretazione brutalmente fisica per un personaggio “perso” in un delirio di alcool, religiosità contorta e desideri carnali.
Una menzione d’onore va infine alla bravissima e bellissima Lupita Nyong’o, la cui performance, simbolo e veicolo di una giovinezza segnata dagli abusi fisici e psicologici, supera notevolmente quella del corpo femminile che incarna la passione ed il tormento di Epps, per trasformarsi nell’epitome di tutti quei soprusi sopravvissuti all’abolizione dello schiavismo…
PS: no, caro, tranquillo che non ti ho dimenticato!!!
Il mio futuro marito Benedict Cumberbatch è geloso del mio futuro amante Michael Fassbender, perdonatelo…
Both is good, both is good… XD