13 assassini (Jûsan-nin no shikaku), il Takashi Miike che non ti aspetti. Abituati ad associarlo a yakuza movie (“Gozu”, “Ichi”), oppure a j-horror molto sui generis (“The Call”, “The Box“, “Audition”), il prolifico cineasta nipponico (all’attivo 80 pellicole, tra film ed episodi televisivi.) si cimenta con il genere jidai geki (chanbara), attraverso questo remake di un film di Eiichi Kudo del 1963.
La trama è per altro molto incline agli appetiti culturali di Miike, soprattutto per i risvolti sociali e personali del potere e della violenza. 13 assassini è infatti una storia di vendetta, una missione suicida dove pochi si oppongono a molti, offrendo la propria vita, a riscatto dei soprusi e delle angherie di un’aristocrazia aliena e senza senso. Sullo stesso tema impossibile non citare la storia dei 47 Rōnin, oppure, rimanendo in ambito cinematografico, “I sette samurai” di Kurosawa (1954) e il remake western “I magnifici sette” (1960).

Il film riesce a portare alla luce gli insensati meccanismi del potere, che sviliscono il valore della vita, e costringono all’estremo sacrificio coloro i quali non si piegano alle arbitrarie vessazioni di Naritsugu, tipico personaggio miikiano, intrappolato in un labirinto interiore di sadismo, ossessioni sessuali e deliri di onnipotenza, che si contrappone a Shimada Shinzaemon, un samurai come tanti, ma con degli ideali e un coraggio come nessuno.

13 uomini, una missione: massacro totale. Mai teaser fu più sintetico e vero.
Samurai Miike, missione compiuta.
«Durante le riprese, la violenza significa amore e armonia. Durante le riprese dei miei film, nessuno si è ferito gravemente. La cosa curiosa è che più l’amore è grande, più aumenta la violenza. Ultimamente ho il dubbio che proprio dall’amore nasca la violenza. In altre parole, sono la stessa cosa.»
(T.M.)






