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Creato il 16 novembre 2014 da Malvino
Tra scienza politica e arte del governo passa tutta la distanza che c’è tra studio e mestiere: si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto vero, anzi, come non si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza – ma si sarebbe tentati a un altro parallelo, assai più feroce: si ricava più denaro dal vendere numeri da giocare al lotto che dalle vincite ottenute grazie alle puntate su quei numeri – così non s’è mai visto un Platone tornare di qualche utilità a un Dionigi, né un Tocqueville più fortunato di un Talleyrand. Sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza. Dovrebbe essere la prova che ogni scienza sociale abbia un limite nel fatto stesso d’essere – appunto – scienza, ma più probabilmente – e qui la probabilità si carica dell’investimento emotivo che sta in una scommessa – è che nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto. Quando apprendiamo che un mestierante di successo ascolta con la massima attenzione tutto il collegio di illustri ed autorevoli periti ai quali ha chiesto parere, per poi decidere di testa sua, spesso contro quanto consigliato da quei saggi, e il risultato della decisione premia il mestiere contro la scienza, non dobbiamo trarre l’affrettata conclusione che non ci sia squadra o pialla per il legno storto: è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare.  

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