16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza [Paolo Arvati]

Creato il 15 giugno 2013 da Asinistra
16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza

   Il 16 giugno 1944 non può essere compreso al di fuori della storia delle lotte operaie nella Resistenza genovese. Se una ragione della retata va ricercata nell’esigenza dell’occupante tedesco di disporre di manodopera da inviare in Germania, è ancora più forte la necessità politica dei nazifascisti di chiudere una volta per tutte la lunga e difficile partita aperta con i lavoratori genovesi sin dall’autunno del 1943. La prima grande lotta è infatti datata 27 novembre: sono i tranvieri a scendere in campo con uno sciopero che ha motivazioni politiche, perché è la risposta all’arresto di tre organizzatori antifascisti. Lo sciopero paralizza la città, mostrando clamorosamente la debolezza del controllo nazifascista sull’ordine pubblico. Dieci giorni dopo, lunedì 6 dicembre, scioperano i lavoratori dell’industria. La motivazione delle fermate, che inizialmente interessano tre stabilimenti, è economica, perché la protesta è contro una disposizione che riduce di un terzo la razione mensile dell’olio per persona. Gli “scioperi dell’olio” impegnano a scacchiera le fabbriche del ponente cittadino per una decina di giorni, sino al 17 dicembre, giorno in cui si fermano tutti gli stabilimenti del gruppo Ansaldo. E’ un’onda di piena che coinvolge circa trentamila lavoratori. I GAP, là dove possono, forniscono sostegno armato ai manifestanti che popolano numerosi le strade dei quartieri operai. I gappisti intervengono per bloccare la circolazione dei mezzi pubblici, facendo saltare binari e recidendo le aste dei tram.    Le autorità nazifasciste, colte di sorpresa dalla forza e dall’estensione del movimento, tentano il sistema del bastone e della carota. A Sestri, durante i tentativi di blocco della circolazione dei tram, è freddato un giovane operaio. A Bolzaneto vengono arrestati due lavoratori, Maffei e Livraghi, che sono fucilati sabato 18. Nello stesso tempo si avviano tentativi di trattativa in cui s’impegna lo stesso amministratore delegato dell’Ansaldo, ingegner Agostino Rocca. I tentativi non portano a nulla, perché la linea dei comitati di agitazione è di non trattare. E’ un manifesto di Zimmermann affisso per tutta la città lunedì 20 dicembre a sancire unilateralmente concessioni salariali e alimentari. I comitati di agitazione dispongono  il ritorno al lavoro a partire da martedì 21, dopo due settimane di scioperi.    A gennaio è ancora alta la volontà di lotta, tanto che il giorno 13 parte uno sciopero al Fossati che coinvolge il Cantiere, la San Giorgio e poi le fabbriche di Cornigliano, Sampierdarena e Rivarolo, sino all’Alta Valpolcevera. I GAP alzano il tiro, colpendo direttamente i tedeschi la sera del 13 gennaio. Buranello e Scano in Via Venti Settembre sparano ad ufficiali tedeschi, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Questa volta la reazione è pronta e durissima: nella notte tra il 13 e il 14 otto antifascisti sono prelevati dalle carceri e successivamente giustiziati al Forte di S.Martino. Venerdì 14 gennaio è ancora sciopero. Il giorno dopo gli stabilimenti sono chiusi a tempo indeterminato, per ordine del Prefetto Basile. Il lavoro riprende solo giovedì 20, senza trattative e, soprattutto, senza risultati per i lavoratori.[1]    La sconfitta di gennaio è molto dura ed è la causa principale del fallimento nelle fabbriche genovesi dello sciopero del 1° marzo 1944. Nel giorno della grande mobilitazione dei lavoratori del Nord, Genova manca l’appuntamento nazionale, salvo isolate fermate, in particolare alla San Giorgio. Il ripiegamento degli operai genovesi durerà quattro mesi. A parte le iniziative in occasione del 1° maggio 1944, quasi tutte esterne alle fabbriche e prodotte da piccoli gruppi, se non addirittura individuali, il movimento entra in un cono d’ombra di apparente tranquillità, anche perché numerosi militanti sono costretti dalla repressione a dileguarsi, senza poter più rimettere piede in fabbrica sino alla Liberazione. Inoltre la Resistenza in questi primi mesi del 1944 subisce altri colpi gravissimi: il 2 marzo cade Buranello, rientrato in città per sostenere militarmente lo sciopero, il 6 aprile avviene il massacro della Benedicta e il 19 maggio l’eccidio del Turchino.    La mancanza di scioperi non significa però cedimento. Significa solo scelta di modalità differenti di resistenza. Come l’opposizione – straordinaria per forza ed estensione – al tentativo fascista di “normalizzare” la vita sindacale con la costituzione di nuove commissioni interne. Il sindacato fascista effettua il massimo sforzo proprio tra marzo e i primi di maggio del 1944, approfittando del momentaneo ripiegamento delle lotte. I comitati clandestini di agitazione denunciano la natura collaborazionista dell’iniziativa e chiamano i lavoratori a votare scheda bianca oppure ad annullare il voto, segnando i nomi di Buranello e di Livraghi. Buona parte dei lavoratori si rifiuta di votare. Chi va a votare, in grande maggioranza, annulla la scheda. I risultati delle principali fabbriche sono raccolti dagli organismi clandestini e diffusi dal bollettino della Federazione del PCI.[2] Significativamente i risultati peggiori per il sindacalismo collaborazionista vengono da tre delle quattro fabbriche poi investite dalla rappresaglia del 16 giugno: al Cantiere di Sestri su 2339 votanti, tra operai e impiegati, 1519 annullano la scheda; i voti nulli sono poi 200 su 350 alla Piaggio e 2115 su 3969 alla Siac. Si segnalano ancora i risultati del Fossati di Sestri (1845 voti nulli su 2448), della Ceramica Vaccari di Borzoli (342 su 350), dell’Odero T.O. (152 su 258), del Cantiere Ansaldo di Sampierdarena (1840 su 2122). Il fallimento della controffensiva politica fascista è evidente. La risposta dei lavoratori non è la lotta aperta come nei mesi autunnali del 1943 e come a gennaio, ma è altrettanto efficace perché colpisce i fascisti sul terreno della battaglia per il consenso, sconfiggendo l’opzione collaborazionista.    E’ nella seconda metà di maggio che si creano le condizioni per una nuova fase di lotta.[3] Gli obiettivi sono di carattere economico perché le condizioni di vita sono nettamente peggiorate. In particolare è drammatica la situazione alimentare, per l’esaurimento graduale delle scorte e per la difficoltà gravissima dei rifornimenti. Si vive alla giornata, per di più nel terrore costante dei bombardamenti che tra marzo e giugno si accaniscono sul ponente cittadino con centinaia di morti e feriti. In diversi stabilimenti si torna a rivendicare salario con modalità inedite: nessuna delegazione per le trattative, nessuna elezione di rappresentanze per non esporre i compagni. Spesso a dar voce alle rivendicazioni ci pensano le donne. Talvolta i dirigenti aziendali sono chiamati a discutere nei piazzali e nei reparti: si parla lì e le voci dei compagni provengono dalle seconde e dalle terze file, senza nome e senza faccia. Anche ai dirigenti va bene così: meglio non vedere e non sapere chi parla a nome di tutti. Il fermento è così alto che il prefetto Basile decide di fare un giro nelle fabbriche tra il 19 e il 20 di maggio, proprio nei giorni della strage del Turchino. Basile minaccia e blandisce e sopporta anche fischi e insulti che gli piovono addosso dagli operai, specie al Meccanico di Sampierdarena.    Il 1° giugno è sciopero alla San Giorgio, al Fossati e al Cantiere. Nel pomeriggio all’Allestimento Navi la polizia spara e rimane ucciso un operaio. Il giorno dopo, venerdì 2, gli scioperi dilagano da Sestri a tutta la Valpolcevera. Nel pomeriggio si fermano le fabbriche di Sampierdarena e di Cornigliano: Meccanico, Carpenteria, Elettrotecnico e Siac. Domenica 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, un pesante bombardamento sulla bassa Valpolcevera causa cento morti e centocinquanta feriti. Cresce ancora la rabbia e gli scioperi proseguono per tutta la settimana successiva, incoraggiati dalla notizia dello sbarco alleato in Normandia, dal giorno 7 di dominio pubblico. E’ di nuovo un’onda di piena, come a dicembre e come a gennaio. Fascisti e tedeschi non possono non cogliere il collegamento tra le agitazioni e la nuova fase del conflitto, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma e lo sbarco in Normandia. Venerdì 9 lo sciopero si è ormai diffuso in tutti gli stabilimenti e Basile decide di porvi fine, ordinando la serrata di sette fabbriche. Il testo del comunicato, apparso sui giornali cittadini sabato 10 è chiarissimo. Ho cercato – scrive in sintesi Basile – di spiegarvi come stanno le cose, ma non avete voluto ascoltarmi e ieri, di nuovo, avete scioperato tutti quanti. Perciò ordino la serrata sino a martedì prossimo di Siac, Piaggio, San Giorgio, Cantieri Navali, Carpenteria, Ferriere Bruzzo, Ceramica Vaccari. Vi avverto che questa è la prima e la più blanda delle misure che sto preparando per voi. Ad ulteriore dimostrazione che si sta facendo sul serio, la mattina del 10 poliziotti guidati dal questore in persona, insieme ad un gruppo di SS, irrompono al Meccanico di Sampierdarena, durante uno sciopero di reparto. E’ un’azione molto rapida: il reparto in sciopero viene isolato e sessantaquattro operai sono prelevati, caricati sui camion e portati via. Operazioni di questo tipo sono già state effettuate per lavori di cui i tedeschi hanno urgenza, ma non hanno mai interessato operai prelevati in fabbrica, bensì gente presa a caso per strada.    Nonostante tutti questi segnali, nessuno all’interno della Resistenza immagina quello che succederà di lì a pochi giorni, nessuno mette in conto la possibilità di una deportazione di massa. Lunedì 12 nelle fabbriche ancora aperte il lavoro riprende regolarmente. Lo stesso succede mercoledì 14 nelle fabbriche sottoposte a serrata. La giornata del 15 trascorre tranquillamente. Venerdì 16, nella tarda mattinata di una giornata caldissima, scatta la rappresaglia guidata dalle forze di occupazione tedesca con la partecipazione di polizia e brigate nere. L’azione è condotta con tecnica militare e ha caratteristiche di un’adeguata preparazione. Innanzi tutto nella scelta degli obiettivi. Per la Siac l’operazione è abbastanza semplice, perché lo stabilimento è relativamente isolato, circondato da colline e i binari della ferrovia hanno diramazioni che arrivano sino alla fabbrica. Più complessa è invece l’operazione per Cantiere, San Giorgio e Piaggio, perché gli stabilimenti sono situati nel contesto urbano di Sestri e hanno parecchie vie di uscita. La contiguità delle tre fabbriche e uno straordinario dispiegamento di forze favoriscono tuttavia il successo, con l’effetto aggiuntivo, probabilmente cercato, di coinvolgere e terrorizzare tutta Sestri. I fatti successivi sono noti e confermati da numerose testimonianze: i lavoratori sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su autobus e camion così come sono, in tuta, con gli zoccoli, molti in canottiera. Nella rete cadono in circa millecinquecento, successivamente portati ai punti di concentramento a Campi e a Rivarolo e caricati come bestie su carri ferroviari con destinazione Mauthausen.    Due giorni dopo, il 18 giugno, escono sulla stampa cittadina due comunicati, uno del comando tedesco, l’altro, truculento e delirante, di Basile che non vuole perdere l’occasione di godersi la festa: “Vi avevo messo sull’avvertita…Non avete voluto ascoltarmi…Oggi più di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed illudere…”. Le parole di Basile tradiscono però anche impotenza e paura: “…Intanto quei pendagli da forca che si gabellano per comunisti, si appostano all’angolo dei carruggi o all’uscita di un rifugio al cessato allarme, per colpire alla schiena uno dei nostri, borghese o militare… Meditate bene quanto sto per dire: la pazienza ha un limite…”. I “pendagli da forca” l’indomani colpiranno duro, questa volta molto in alto. Dopo essere sfuggito ad un primo attentato proprio il 16 giugno in Via Garibaldi, vicino a Palazzo Tursi, il 19 a Savignone è liquidato a colpi di mitra il generale della GNR Silvio Parodi. Il 25 giugno esplode una bomba in un bar di Via del Campo frequentato esclusivamente da soldati tedeschi: i morti sono sei e diversi i feriti. Il 30 giugno a Pedemonte sono colpiti a morte quattro ufficiali tedeschi. Il 2 luglio in Piazza Aprosio a Sestri è la volta di un sottufficiale di P.S.    Tornando alla gigantesca retata del 16 giugno è necessario ricordare che questa si svolge praticamente senza resistenze, salvo qualche isolato episodio di protesta di donne a Sestri. Le testimonianze raccolte da Clara Causa[4] ricordano un gesto disperato del partigiano Piva che nel Cantiere Navale riesce a sparare qualche colpo di pistola contro i tedeschi. Altre testimonianze raccolte da Manlio Callegari[5] citano episodi di azioni individuali di aiuto per la fuga dei deportati. Nel complesso tuttavia l’operazione si svolge nel disarmo completo dell’organizzazione della Resistenza. La domanda obbligata riguarda la possibilità di prevedere, evitare o contrastare la deportazione del 16 giugno. Prevedere forse si, considerando premesse e segni premonitori. Evitare probabilmente no, considerando la sproporzione delle forze in campo in quel momento. Contrastare, attenuando le conseguenze, sicuramente si. Ad avvalorare questa tesi è proprio la testimonianza di Remo Scappini, all’epoca responsabile del Partito Comunista, uno dei capi della Resistenza genovese: “Il rastrellamento rivelò serie deficienze anche del nostro partito, poiché dimostrò che le squadre operaie di difesa avevano trascurato la sorveglianza nelle fabbriche. Certo, di fronte ai mitra puntati non sarebbe stato possibile opporre resistenza, ma se la sorveglianza avesse funzionato e se ci fosse stato un minimo di reazione, si sarebbe creato scompiglio facilitando così la fuga di molti operai, come avvenne in altre circostanze a Genova, a Torino e altrove.” [6]    Ora è possibile trarre una prima conclusione storiografica. Il 16 giugno chiude drammaticamente a Genova una fase della Resistenza contrassegnata dalla centralità delle grandi lotte operaie.[7] Ci saranno altri scioperi alla fine di ottobre del 1944, contro la minaccia di nuove deportazioni, a novembre contro la diminuzione della razione di pane, e infine nei mesi della mobilitazione pre-insurrezionale.[8] La fabbrica però non è e non potrà più essere il centro dell’iniziativa politica antifascista e antitedesca. Sono i lavoratori per primi a comprenderlo, sino a trarre coerenti conclusioni con il rifiuto (di fatto) dell’indicazione del Partito Comunista e del CLN dello sciopero generale insurrezionale nell’aprile 1945. La mancata effettuazione dello sciopero generale non impedirà, come è noto, il pieno successo dell’insurrezione “modello” di Genova, con il contributo determinante della classe operaia, specie a Sestri e nel ponente industriale della città.[9] A questo proposito Giorgio Bocca ha scritto – efficacemente, anche se impropriamente – che a Genova e in Liguria la lotta di Liberazione ebbe le caratteristiche di una “rivincita operaia”.[10]    Il secondo problema storiografico collegato al 16 giugno riguarda il peso che nella vicenda ebbe l’esigenza di reclutare lavoro forzato per l’economia di guerra tedesca. Quella della deportazione di manodopera è una storia lunga che inizia dopo l’8 settembre con l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord e della città di Genova. Già nel novembre 1943 l’amministratore delegato dell’Ansaldo Agostino Rocca riesce ad impedire la deportazione di novecento lavoratori destinati alla costruzione di sommergibili a Kiel.[11] Il problema si ripresenta alla fine di gennaio del 1944, quando Rocca viene a sapere dell’esistenza di un piano tedesco di prelievo di circa trentamila lavoratori genovesi, tremila dei quali dovrebbero essere messi a disposizione dall’Ansaldo. Utilizzando i buoni rapporti con Leyers, ingegnere e generale di corpo d’armata plenipotenziario per l’Italia del Nord di Albert Speer, ministro per gli armamenti e la produzione bellica, Rocca riesce nuovamente ad opporsi al trasferimento, offrendo in cambio un aumento di produzione nei propri stabilimenti. Rocca capisce e quindi gioca sul fatto che le pressioni maggiori per il trasferimento di manodopera in Germania vengono dagli industriali tedeschi, più che dalle autorità militari in Italia.     La situazione precipita alla fine di marzo, allorché vengono inviate agli operai dell’Ansaldo mille cartoline precetto che equivalgono ad un ordine di partenza. Rocca fa ritirare le cartoline e per questo rischia l’arresto da parte delle SS. Alla fine a partire sono solo un centinaio di operai, anziché i tremila in un primo tempo previsti. Un nuovo tentativo tedesco viene effettuato un mese dopo con la richiesta di duemila operai dell’Ansaldo Fossati: il numero è stabilito sulla base della quantità di disoccupati che in quel momento risultano percepire sussidi totali o parziali. Questa sembra la volta buona, perché vengono fissate sia la data della deportazione, il 10 maggio, sia addirittura le procedure di trasferimento, con l’avvertenza tedesca che “le maestranze partiranno come si trovano sul posto di lavoro”. Alla fine salta anche l’appuntamento del 10 maggio, per ostacoli frapposti dalla stessa amministrazione di Salò. Le autorità germaniche preferiscono rinviare l’operazione ad un momento più favorevole che arriverà presto, il 16 giugno, appunto. Quando non saranno possibili obiezioni in presenza di “…una misura di polizia (reazione ad uno sciopero), contro la quale la considerazione costi – profitti – come nel caso delle richieste di aziende di operai per la produzione bellica nel Reich – non avrebbero potuto prevalere.”[12] Sull’intera vicenda della mancata deportazione del Fossati osserva Manlio Calegari: “L’impreparazione, lo stupore, la disperazione di quel giorno (16 giugno, ndr) deriveranno anche dal fatto che in città nulla era trapelato del progetto del 10 maggio. Il fatto che di nulla il CLN avesse avuto sentore, porterebbe a pensare che localmente l’attenzione a simili soluzioni fosse scarsa, tanto esse apparivano irrealistiche. Non ci si aspettava ancora un anno di guerra, né che la Germania mettesse in opera il massiccio trasferimento di risorse materiali e umane che aveva più volte annunciato e tentato.”[13]    Dal punto di vista tedesco per altro le complicate vicende genovesi sono emblematiche di un più generale fallimento, se rapportato agli obiettivi iniziali di oltre un milione di lavoratori italiani al servizio dell’industria bellica germanica. Fallisce tanto il reclutamento di volontari attuato con la propaganda, quanto l’arruolamento coatto, sia civile, sia militare. “Se esaminiamo le cifre – osserva ancora Klinkhammer – nel 1944 da gennaio a dicembre gli operai dell’industria arruolati furono complessivamente 65.954. Rispetto ai progetti di Sauckel dell’inizio dell’anno, che prevedevano il rastrellamento di un milione e mezzo di lavoratori, e più ancora rispetto alla dichiarazione di Hitler nel marzo, secondo la quale dall’Italia se ne potevano ricavare anche tre milioni, il numero dei lavoratori effettivamente “arruolati” testimonia con tutta chiarezza il fallimento dell’organizzazione Sauckel. Anche di fronte a circa 450.000 militari internati, che in agosto furono trasformati d’autorità in lavoratori civili, e che per altro lavoravano già in precedenza nell’industria degli armamenti, risulta evidente la scarsa importanza che ebbero per l’industria bellica tedesca i nuovi arruolamenti.”[14] In altri termini il reclutamento di lavoratori italiani da parte dell’occupante tedesco si ridusse a quello che in effetti fu il 16 giugno a Sestri: pura operazione di polizia, di repressione della protesta, di umiliazione e di annichilimento di un’intera comunità.    In conclusione una riflessione su un ultimo problema storiografico legato al 16 giugno. Colpisce la sproporzione tra il peso che quella tragedia ebbe nella storia della Resistenza genovese e che tuttora ha nella memoria collettiva dei sestresi, tramandata com’è di generazione in generazione, e l’attenzione tutto sommato scarsa che il 16 giugno ha avuto e nella storiografia locale (salvo le eccezioni più volte citate), e ancor più nella storiografia nazionale della Resistenza e, più in generale, del periodo 1943 – 1945. Una maggiore attenzione deve essere sollecitata ed anche pretesa. Il modo giusto per farlo, a livello locale, è però quello di aiutare la ripresa della ricerca mettendo a disposizione una testimonianza come quella di Orlando Bianconi che, senza nulla togliere ad altre testimonianze, [15] ha il pregio di essere stata prodotta (quasi) contemporaneamente allo svolgimento di una difficile vicenda di deportazione.    I diari possono essere letti da due punti di vista. Il primo riguarda la terribile vicenda di un uomo non più giovane (quarantatre anni al momento della deportazione) che improvvisamente, in una “…giornata d’estate...” in cui “…nulla fa presagire quanto sta per accadere…” deve subire una violenza cieca che lo costringe ad abbandonare tutto, lavoro, casa, famiglia, affetti: “ore 19 partenza, lungo la linea numerose persone, tra cui donne e fanciulli piangenti, salutano noi e maledicono loro…”. Lo stile è asciutto, essenziale, ma nulla è dimenticato: un gesto di generosità (“…a Ronco Scrivia una ragazza mi offre tutto il denaro del suo borsellino, ringrazio il suo buon cuore, ma cosa farne?”), il pensiero della fuga (“A tratti odo come se il predellino del carro urtasse in un mucchio di sabbia, ma comprendo cos’è il rumore: è la caduta dei fuggitivi…Sono avvilito per non poter essere anch’io tra loro, mi consola il pensiero che almeno qualcuno riesca a fuggire.”). Poi l’arrivo, con il terrore di una scoperta: “…riesco a leggere il nome della stazione d’arrivo: Mauthausen. Comprendo come un fulmine…ricordo il terribile campo dove durante la guerra 1914 – 18 perirono migliaia di prigionieri.”    E ancora il freddo, la fame, i maltrattamenti gratuiti (“…come se si fosse una mandria di bestie...”), il disagio (“…bisogna arrangiarsi, in tre su un pagliericcio…”), soprattutto l’incertezza (“L’argomento principale è come finiremo, ci manderanno al lavoro o ci terranno lì a far la vita del campo?”). Con l’incertezza arriva la paura di ammalarsi (“Per quanto può durare a fare una vita simile un individuo? Poco, perché appena si ammala per lui c’è il forno crematorio…”), di prendere botte (“…schiaffi e pedate, per gusto, basta non togliersi il berretto quando passa sia un soldato che un ufficiale, anche a una certa distanza, lavorando o no…”), soprattutto di non rivedere più i propri cari (“…quando sono a letto penso a mia moglie e al mio bimbo Severino, che chissà quando e se li rivedrò…”).    La seconda chiave di lettura dei diari riguarda l’operaio specializzato elettricista Orlando Bianconi, entrato alla Piaggio di Sestri perché “…è una delle poche fabbriche che non costringeva i suoi dipendenti all’iscrizione obbligatoria al Partito Nazionale Fascista”. “Era un libero pensatore – osserva il figlio Severino – anche dopo la Liberazione Orlando continuò ad esserlo, senza mai iscriversi ad alcun partito”. La vena libertaria si sposa con il forte attaccamento al lavoro e con l’orgoglio di appartenere ad una realtà culturalmente più avanzata: “…si credono una razza eletta…Vale più un semplice manovale di noi che un capo di loro. Un lavoro che in Italia si impiega un giorno per farlo bene, qui ne occorrono tre per farlo male…Conoscono solo il lavoro, mangiare, dormire e avere figli. Loro vivono per lavorare, mentre noi lavoriamo per vivere”. E’ grazie al proprio mestiere che Orlando riesce a migliorare un poco la propria condizione di deportato. Si dà da fare e nel tempo libero ripara radio, facendosi così apprezzare dagli austriaci. Una volta accettato, Orlando scopre che anche tra i tedeschi ci sono “…molte brave persone…” e che tra i suoi compagni di lavoro c’è chi come lui odia fascismo e nazismo (“…Eric Streif è un antinazista, ci offre sempre da fumare e mai un rimprovero per nessun motivo. Comprende che siamo vittime di un partito e forzati a fare un lavoro non nostro, perciò quello che facciamo è fin troppo…”). Quando finalmente arriva il giorno della libertà, Orlando è lapidario, quasi a trattenere un’emozione inesprimibile, troppo grande per poter essere raccontata con più di dieci parole: “4 maggio 1945. Esco, appena fuori spunta la prima macchina americana. Sono le 8,30.”    Con la sua sensibile (e ruvida) personalità Orlando Bianconi narra se stesso e, forse senza rendersene conto, anche la sua classe sociale. L’operaio “medio” genovese è infatti adulto, istruito, ad elevata qualificazione professionale. Mestiere, orgoglio professionale, coscienza fiera, indipendenza intellettuale (che si sia “liberi pensatori” o militanti di partito poco importa): questi sono i tratti molto nitidi di un soggetto sociale forte, capace di esprimere autonomamente valori e culture. Da questo punto di vista la Resistenza genovese è stata veramente una straordinaria “rivincita operaia”.
Sestri, dicembre 2008     Paolo Arvati  



[1] Sulle lotte dell’autunno inverno 1943 - 1944: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Istituto Storico della Resistenza, Genova 1968, pp. 71-86; M.Calegari, Comunisti e partigiani, Genova 1942 – 1945, Selene Edizioni, Milano 2001, pp. 149 – 171. [2] L’episodio è analizzato dettagliatamente da Antonio Gibelli in Genova operaia nella Resistenza, cit. pp.101-108. [3] L’analisi più completa del periodo maggio – giugno 1944, oltre che dello stesso evento del 16 giugno, è di Manlio Calegari in Comunisti e partigiani, cit. pp. 192 – 205. [4] C.Causa, La Resistenza sestrese, ANPI Sestri Ponente, Genova 2000, pp. 82 – 85. [5] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag. 201. [6] R.Scappini, Da Empoli a Genova, La Pietra, Milano 1981, pag. 199. [7] A questa conclusione giungono i contributi di M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. , S. Antonini, La Liguria di Salò, De Ferrari, Genova 2001, P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, ILSREC, Storia e Memoria, n. 2, 2004. [8] Su questi episodi di lotta: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, cit. [9] Sull’insurrezione di Genova: M. Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pp. 483 – 489; P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, cit.; M.E.Tonizzi (a cura di), A wonderful job, Carocci, Roma 2006. [10] G.Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Arnoldo Mondadori, Milano 1995, pag.331. [11] Sulla deportazione di lavoro forzato: L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 161 – 165 e 366 - 411. [12] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, cit. pag.165. [13] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag.194. [14] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, cit. pag. 371. [15] Si ricorda in particolare: P.Villa, Ricordi di un deportato nel Terzo Reich, Nuova Editrice Genovese, Genova 1997.

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