(Fare) l’amore è un gioco da ragazze. Diciassette per la precisione. E’ una provocazione, un gesto di ribellione, e di vita(lità). Così un folto gruppo di liceali di una cittadina francese affacciata sull’Atlantico decide di rimanere incinta contemporaneamente, nell’arco di poche settimane.
Ispirandosi ad un fatto realmente accaduto nel 2008 nel Massachusetts (Usa), le sorelle Delphine e Muriel Coulin ci raccontano una storia tanto vera quanto incredibile, che sin dal plot fa presa sulla curiosità e l’interesse degli spettatori, spinti così al cinema per indagare causa ed effetto di un simile gesto di “vita spericolata”. Gli effetti sono chiari: genitori che picchiano e cacciano di casa, desiderio d’imitazione delle altre jeune filles, una comunità impreparata a fronteggiare la situazione. Sono invece le cause a non essere ben delineate in una sceneggiatura più volte troppo retorica nei dialoghi, talvolta poco calati nella realtà giovanile. Non viene sviluppato con chiarezza l’alibi che davvero muove le ragazze a far sesso con il primo che capita durante un party da consumare presto e bene. Insomma, non trova spazio sufficiente, e indispensabile, la spiegazione del perché di questo disagio giovanile. E’ questo il punto più debole di 17 ragazze, che comunque sia è un buon film, fresco, nuovo, primaverile nei contenuti, autunnale nella regia. Infatti la premiata coppia di registe francesi (vincitrici del premio della Giuria all’ultimo Torino Film Festival) lascia il campo alle giovani attrici, quasi tutte non professioniste, ciascuna perfetta nel proprio ruolo (da segnalare la grande performance del sestetto principale formato da Louise Grinberg, Juliette Darche, Roxane Duran, Esther Garrel, Yara Pilartz, Solène Rigot). Sono i volti giusti, gli sguardi giusti, i sorrisi giusti. La macchina da presa sta su di loro, pur evitando primissimi piani. Ricorre massiccia la macchina fissa, come a dire che il palco è delle 17 ragazze e non delle 2 registe. Lo spettacolo sono loro, tutto passa attraverso i loro movimenti (nell’immagine, e non dell’immagine, quindi). Mdp fissa ad una distanza allo stesso tempo asettica e partecipe, ragionata e riflessiva, in particolare nelle molteplici scene in cui le giovani, con sguardi al soffitto, al muro o a terra, s’interrogano sul da farsi o su quello che hanno già combinato.
Contraltare importante, che si definisce come inno alla vita, sono le immagini che ci mostrano le ecografie live di queste donne bambine, con quel fascinoso mistero della vita sgranato e nitido, che suscita gioie e preoccupazioni.
La figura maschile rimane sullo sfondo, riducendosi, nel personaggio dello sbarbatello e conteso Tom (Arthur Verret), annacquato James Dean del freddo nord francese, in oggetto del desiderio e strumento per la procreazione.
Di fronte ad una trama del genere è lecito chiedersi: messaggio di fondo? Le sorelle Coulin sposano il saggio, rassicurante e protettivo partito del “voler raccontare”, che permette loro, almeno in parte, di lavarsi le mani di quanto ci hanno mostrato. Rimangono a metà, tra poggio e buca, tirando un colpo al cerchio e uno alla botte. Il finale mette d’accordo tutti, o almeno “ridimensiona” le vicende, riportandoci coi piedi per terra. Questo è un racconto, punto e basta, così che siamo più prodighi ad amare, che non a contestare, queste giovani ribelli.
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