1962. Gli Stati Uniti mandano nello spazio il loro primo uomo, John Glenn, rispondendo al russo Yuri Gagarin, i Beatles pubblicano il singolo di debutto Love me do e Marilyn Monroe viene trovata morta nel sua casa di Brentwood, Los Angeles. Mentre nascono gli attori Tom Cruise e Jodie Foster, al cinema esce il capolavoro nostrano Il sorpasso (Dino Risi) e Divorzio all'italiana (Pietro Germi) vince il premio come miglior commedia al Festival del cinema di Cannes, ma anche il resto del mondo si difende bene, proiettando sui grandi schermi L'angelo sterminatore ( Luis Buñuel), Jules e Jim (François Truffaut) e Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich). Nel 1962, esce nei cinema anche Lolita di Stanley Kubrick e lo stesso anno Anthony Burgess pubblica il suo romanzo più conosciuto, Arancia meccanica. Forse, Burgess non avrebbe mai immaginato, all'epoca, che la sua opera si sarebbe legata indissolubilmente a quella di Kubrick, conservandosi nel tempo con una potenza immaginifica che, cinquant'anni dopo, non accenna ad affievolirsi. Storia fantapolitica di ultraviolenza e condizionamento sociale, sarà senz'altro ricordata dai più, grazie soprattutto alla celebre trasposizione cinematografica del regista americano, datata 1971.
Il film di Kubrick riflette lo schema narrativo di Burgess, grazie al quale le vicende del protagonista vengono distribuite nelle tre diverse parti del romanzo (ognuna delle quali comincia con la domanda «Allora che si fa, eh?»): nella prima si raccontano le scorribande del Drugo Alexander DeLarge e della sua gang di teppisti, tra furti, abusi sessuali e aggressioni; nella seconda, in seguito all'arresto di Alex per omicidio, viene descritta la particolarissima cura Ludovico alla quale viene sottoposto per essere riabilitato e reso idoneo al rientro nella società; nella terza e ultima parte, Alex è di nuovo libero, ma deve fare i conti col mutamento forzato della propria natura, la strumentalizzazione politica e il passato che torna a fargli visita sotto forma di vendetta. Oltre a una profonda riflessione sul libero arbitrio e su molti temi tuttora attuali (la delinquenza giovanile, la giustizia, la corruzione, l'influenza della società, la propaganda politica), ciò che più di ogni altra cosa ha sempre affascinato di libro e pellicola è il linguaggio utilizzato, il Nadsat, un miscuglio di inglese colloquiale in dialetto Cockney (parlato perlopiù dalla classe proletaria di Londra) e molti termini di derivazione russa. Già Orwell in 1984, grazie alla sua Neolingua, un inglese con un radicale intervento censorio, aveva fatto uso di un linguaggio creato ad hoc per un romanzo; anche Tolkien, aveva dato vita all'idioma artificiale Quenya, un linguaggio elfico che prendeva spunto dal finlandese. Senza dimenticare poi, sul fronte cinematografico, il Cityspeak parlato nel film Blade runner (di Ridley Scott, 1982), slang di strada che incrociava varie lingue ed etnie. Il Nadsat di Arancia meccanica, però, si impone alla memoria come esempio paradigmatico di lingua artistica, supremo esercizio di stile di un glottoteta professionista. Ed ecco che, scandite da dialoghi e dalla voce narrante, nella pellicola di Kubrick si materializzano, in un caleidoscopio di trovate visive, le idee folgoranti di Burgess, tra un drink al Korova Milk Bar e scene velocizzate in cui si esplicita unl dolce su e giù. Rimangono, poi, gli arredi futuristici, le acconciature improbabili, gli indimenticabili costumi di Milena Canonero, le sequenze del trattamento Ludovico e la Nona Sinfonia di Beethoven. E molto altro, del resto.
Oggi, cinquant'anni dopo il libro e più di quaranta dopo il film, si contano innumerevoli i riferimenti, dai tifosi da stadio nelle curve della Juventus a una linea di abbigliamento che riprende i tratti distintivi di Alex. Per la cronaca, anche Bart Simpson, in un episodio della serie, non ha resistito a indossare gli stessi abiti di Alexander DeLarge. Segnalo, infine, il libro del collettivo Wu Ming dal titolo Anatra all'arancia meccanica, una selezione che raccoglie dieci anni di loro racconti, ovviamente a base di ultraviolenza (Einaudi, 2011).
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