Quando penso al giorno in cui morì Falcone mi immagino un'Italia ferma davanti alle televisioni, ad ascoltare le notizie, a guardare quelle immagini che ormai, giustamente, conosco anch'io che quel 23 maggio di vent'anni fa avevo solo un anno e mezzo. Ho l'impressione che sia stata una data fondamentale per il nostro Stato, una data triste, di sincero dolore, almeno da parte del popolo, forse non da parte di chi a proteggere Falcone poteva anche pensarci prima. Ho l'impressione che, un po' come è successo per l'11 settembre del 2001, tutti si ricordano che cosa stavano facendo quel 23 maggio di vent'anni fa, quando hanno visto quella strada fatta saltare in aria. Immagino il silenzio con cui si è cenato quella sera, immagino che aleggiava nell'aria la sensazione che qualcosa stava finendo. Ieri sera ho visto il film sui 57 giorni che hanno separato le morti di Falcone e Borsellino. Ricordo di aver pianto a dirotto per un Paolo Borsellino mandato in onda qualche anno fa su Canale 5, con protagonista Giorgio Tirabassi. Ieri sera non sono stata da meno. Ho dovuto accantonare il mio uncinetto e asciugare le lacrime. Credo che il destino di Borsellino sia stato ancora più crudele, perché quei 57 giorni erano tutti potenziali giorni di morte e lui lo sapeva. Mentre sul volto truccato di Zingaretti scendeva una lacrima amara, sul mio ne scendevano non so quante.
Guerra...
La notizia giunge a Montecitorio durante le votazioni per il Presidente della Repubblica. La DC, impallinato Forlani, si accinge a candidare Andreotti, ma l'emozione per la strage rende inopportuna la scelta del capo di Salvo Lima. Così viene eletto Scalfaro. Il Movimento sociale vota compatto per Borsellino, uomo di destra, il quale rifiuta sdegnato la candidatura del governo a superprocuratore al posto dell'amico appena ucciso.
Ai funerali echeggia l'urlo straziante di Rosa Schifani, vedova ventiduenne di uno degli agenti della scorta. Nelle stesse ore un'altra donna, un magistrato dai capelli rossi, inveisce contro l'ipocrisia dei colleghi che piangono Falcone dopo averlo dileggiato in vita. Si chiama Ilda Boccassini.
...e pace?
Di questo genere di contatti si torna a parlare dopo l'arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993. A sorprendere il capo dei capi a un semaforo è la squadra speciale di un carabiniere fuori dagli schemi e perciò inviso ai burocrati, il Capitano Ultimo, che blocca il Padrino stringendogli la propria sciarpa intorno al collo.
Ultimo respinge l'insinuazione che a propiziare la cattura sia stata la soffiata di un altro boss, Bernardo Provenzano. E la sentenza che lo assolve dall'accusa di favoreggiamento per non aver perquisito la villa di Riina (come se la possibilità di far scomparire prove compromettenti fosse stato il prezzo da pagare per la consegna del Padrino) gli riconosce il merito esclusivo dell'operazione. Ma anche lui, come Falcone, cambierà aria disgustato, andando a occuparsi di reati ambientali.
Dalla sua cella d'isolamento, che tanto isolata non deve essere, Riina scrive «papelli» allo Stato in cui chiede l'abolizione del carcere duro. Intanto la guerra continua. (...)
Il Presidente del Consiglio Ciampi teme addirittura un colpo di Stato e invece il colpo arriverà a colui che lo Stato incarna più di ogni altro: Andreotti, indagato a Palermo dal nuovo procuratore Giancarlo Caselli per concorso esterno in associazione mafiosa. (...) La sentenza definitiva assolve l'imputato per i fatti successivi alla primavera del 1980, ma lo considera responsabile fino a quella data, anche se il reato è estinto per prescrizione. (...)
Con l'avvento della cosiddetta Seconda Repubblica e di una nuova generazione di boss, la guerra guerreggiata fra mafia e Stato si interrompe. Ma, nonostante la cattura di molti latitanti, la Piovra continua ad avanzare, riciclando i suoi guadagni immensi nell'economia del Nord Italia. Ai cattivi, adesso, conviene di più fare i buoni.