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22) Racconto: Spring-heeled Jack, la genesi

Da Angivisal84

Spring-heeled Jack, la genesidi Samantha BaldinCreatura: Jack il saltatore22) Racconto: Spring-heeled Jack, la genesi
Il dottor Jack attendeva in piedi che la sventurata partorisse. Nascosto dietro l’angolo di Black Hole Street, osservava l’ennesimo degrado della Londra sofferente che la gente preferiva ignorare. Fumatori d’oppio morenti, sciacalli in cerca di portafogli facili, portatori di sifilide e una miriade di topi non erano una piacevole compagnia, ma per una prostituta attempata che doveva sbarazzarsi di un problema era l’ambiente ideale.Accucciata nella penombra, la donna s’aggrappava al tubo di scolo del palazzo. Anche se mordeva un pezzo di legno, non riusciva a soffocare del tutto le doglie del parto. Lamenti strozzati s’alternavano a ansimi sofferenti. Jack si sfregò le mani alitandoci sopra. Era la notte d’ottobre più fredda che ricordasse. La donna tese le braccia e inclinò la testa all’indietro. Il volto le si arrossò. Per alcuni istanti, rimase ferma in quella posa disperata. Respiri brevi e veloci. Scrollò la testa e serrò le mani intorno al tubo con maggiore vigore. Prese fiato e il volto ritornò rosso. Le guance s’ingrossarono. Sembrò trattenere il fiato fino al leggero tonfo. Poi, si lasciò cadere all’indietro respirando con calma. Spostò la gonna, cenciosa e umida, e afferrò qualcosa tra le gambe. Tirò con fastidio e rinnovato dolore. Strisciò all’indietro e si appoggiò alla parete. Una scia di sangue la univa alla sacca e al corpicino, immobile.Jack afferrò la borsa medica che aveva in terra, vicino alla gamba. Mosse un passo serrando la mascella. La donna passò il braccio sulla fronte. Si alzò rasentando la parete. Pochi respiri e si avviò trascinando i piedi. Girò l’angolo.Jack si precipitò sul piccolo. Era un prematuro. Sulla schiena c’erano delle chiazze scure. Le braccine erano una era più corta dell’altra. Toccò col dito il cuore. Sentì delle leggere pulsazioni. Era vivo ma sifilitico. Come supponeva, la donna era ammalata. Aprì la borsa, estrasse un panno con i ferri chirurgici. Tagliò il cordone ombelicale liberandolo dalla sacca. Prese il barattolo di vetro contenente la formaldeide e lo depose dentro. Per un breve istante, il forte odore di acido coprì il puzzo del sangue misto liquido amniotico. Mise rapido il barattolo nella borsa, la chiuse. Jack osservò il piccolo. Era condannato, ma lasciarlo a quel modo gli sembrò disumano. Stava per avvolgere il corpicino in un panno, quando fu scaraventato a terra. Si ritrovò la donna a cavalcioni, mentre lo schiaffeggiava mostrando i denti marci. Jack tentò di allontanarla. Le afferrò le mani, ma la donna lo morse al braccio. Gridò.Le mollò un pugno in faccia. La donna cadde all’indietro.Osservò l’avambraccio, mancava una parte della pelle laddove c’era la ferita che grondava sangue.La donna copriva il colto con le mani. Poi, lo fissò con gli occhi sgranati. Gli si lanciò addosso con le braccia tese gridando.Jack la colpì allo stomaco. La donna indietreggiò, scivolò sul sangue e cadde malamente in terra. Picchiò la testa, svenne. Jack cercò la borsa ansimando. Era laddove l’aveva lasciata. Il piccolo, però non c’era più. Da sotto la schiena della donna emersero sottili rivoli di sangue che s’insinuarono tra le giunture dei sassi. La morte per quel innocente era giunta malsana come la nascita.Jack si alzò, prese la borsa e si avviò. Si strinse nel lungo mantello nero. Percorse il vicolo a capo chino. Dio non si cura di Black Hole Street.
Giunto a casa, medicò la ferita. Si sedette sul bordo del letto, sfatto come lui. Afferrò la bottiglia di Assenzio, ne bevve un sorso a canna. Puro e forte, non come facevano i francesi con il loro cucchiaino forato e lo zucchero per addolcirlo. L’anice gli solleticò la lingua e per un breve istante, non sentì più il saporaccio acre in bocca. Si sdraiò. Pose il braccio sano sul viso, chiuse gli occhi. Un sonno inquieto portò i volti pallidi e rigidi dell’amata Mary e del piccolo John. Come spettri verdi lo chiamavano tra i morti.Una voce famigliare si sollevò dai lamenti. «Jack, sveglia. Jack…»Jack aprì gli occhi. Lo sguardo di Richard era fisso su di lui, due fessure tra la bombetta e la sciarpa. Jack mugugnò. Si girò di lato verso l’amico. «Sono in ritardo?»«Dipende. Lo hai trovato?»Jack annuì, indicò la borsa vicino alla porta. Richard si lasciò cadere sulla sedia senza togliersi il cappotto. Abbassò la sciarpa. «Bene» tolse la bombetta e si passò la mano sulla fronte. «Sei ferito. Cosa ti ha morso questa volta?»«Una prostituta pazza e sifilitica» borbottò sbattendo piano le palpebre. «Dovevo venire con te.» Richard si alzò di scatto. «Almeno questo te lo saresti risparmiato.»«Sono un cadavere che cammina. Tu no.» Serrò la bocca. Sentì un dente dondolare in modo anomalo. Lo sondò con la lingua. Aprì la bocca, con due dita afferrò il premolare sinistro inferiore. Tirò senza provare nulla. Il dente abbandonò la cavità lasciando in eredità il sapore misto di ferro e osso. Deglutì il sangue. Tirò il cassetto del comodino. Lasciò cadere dentro il dente. «Un altro pezzo di me che se ne va.» Richiuse. «Con le cellule staminali, avvieremo subito il differenziamento cellulare. Non è tutto perduto.» Richard si sedette, appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Gli si avvicinò. «La cabina è nuovamente pronta. Ora ti porto via con me.»«Io non sono molto convinto degli studi di quel tedesco. Ma non ho nulla da perdere.»«Lui ha detto che può fare qualcosa, che non è nuovo alle mutazioni che ti stanno…» Richard esitò.«Uccidendo?»«Dai, Jack, andiamo.» Senza aggiungere altro, Richard si alzò. Jack lo seguì, ma una volta in carrozza si addormentò.
Freddo. Jack aveva i ricordi frammentati. «Dove sono?» Alzò appena il capo. Si scoprì nudo, disteso su un lettino di metallo. Le numerose piaghe sulla pancia erano state trattate con una pomata gialla che puzzava di zolfo. In altre zone, c’era una sostanza bluastra. Non odorava. Jack l’aveva anche sulle mani. Strofinò le dita, era vischiosa. «Richard…» sussurrò. Un uomo col volto bendato era chino su di lui. Indossava una tuta cerata, le mani erano ricoperte con la stessa sostanza blu. Non era Richard. Gli occhi erano glaciali.Jack girò la testa in cerca dell’amico. Lo trovò poco distante da lui. Richard era nudo, sdraiato in una bara d’ottone posta in obliquo. Un vetro nel coperchio lasciava intravedere il mezzo busto. Tubicini colorati confluivano in un pannello con pulsanti e leve. Dal pannello partivano altri tubi che finivano proprio verso di lui. Sotto di lui.«Cos’è questo posto?» cercò di allungare il braccio, ma era bloccato da un laccio al polso. «Cosa sta succedendo?» L’amico era in quella bara colma di liquido blu col volto in una maschera da cui partiva un tubo. Lo stava fissando, gli sembrò quasi che sorridesse. Alcuni istanti e chinò il capo di colpo.«Richar-» Jack sentì un ago nel collo. Guardò lo sconosciuto mentre poggiava sul tavolino metallico una grossa siringa di vetro. Prese una maschera come quella dell’amico. «Auf Wiedersehen» disse con la voce gutturale mentre gli copriva il volto. Un odore dolciastro gli penetrò nelle narici. Non era morfina. Non sapeva cosa fosse.Sentì un torpore crescente. Un formicolio inondargli il corpo. Scivolò dentro una bara di ottone e vetro. Non riuscì più a tenere gli occhi aperti. Lo avvolse un piacevole tepore, che divenne in breve un caldo febbricitante. E bruciore. Dolore. Le fiamme lo avvolsero, lo consumarono. Jack aprì gli occhi con un sussulto. Non respirava più. Sentì i polsi bloccati, ma con una leggera spinta si liberò. Toccò il vetro. Sussultò nel vedere la sua mano nera e lucida. Graffiò il coperchio con i robusti unghioni.Liberò anche l’altro braccio. Si toccò il volto. Indossava ancora la maschera. Colpì il vetro più volte finché una ragnatela lo incrinò dandogli speranza. L’ultimo pugno e il vetro si ruppe facendo uscire il liquido blu. Tolse subito la maschera.Il puzzo era insopportabile, un mattatoio abbandonato.Cercò di uscire dalla bara, ma il coperchio era chiuso. Liberò le gambe, con calci e pugni la scoperchiò. Era dritta in piedi. Per poco non cadde in avanti. Si osservò. Non erano solo le mani diverse. Tutto di lui non sembrava più lo stesso. La pelle aveva una membrana scura, liscia al tatto. Robusta. Le gambe erano possenti, i piedi callosi.Non aveva tubi conficcati. Erano pendenti alla parete della bara, forse si erano staccati da soli. Osservò il laboratorio. Le ragnatele addobbavano il soffitto e gli angoli. La polvere ricopriva il pavimento e i macchinari, intonsa. Non veniva nessuno da lungo tempo.Jack uscì dalla bara.La cabina vicina era in piedi come lo era la sua. Il vetro era torbido, non si vedeva nulla.«Richard!» Si lanciò verso il suo amico, con agilità. Aprì il coperchio. La sostanza era melmosa, putrida ma uscì lo stesso. Jack inorridì. Nelle fattezze del cadavere essiccato e rigido come cuoio, riconobbe le sembianze del uso amico. «Mummificato…» Indietreggiando, scosse il capo.«Ma cos’è successo» allungo una mano, ma non ebbe il coraggio di toccarlo. «Cos’hai fatto?»Andò al pannello di comando. Spostò alcune leve, tanto per provare, ma tutto sembrava spento. Vagò per l’ampio salone in cerca di qualunque indizio che potesse fargli comprendere l’accaduto.Trovò solo dei pantaloni e un mantello con una doppia vu dorata ricamata al suo interno.Si vestì e uscì dall’unica porta. Salì la scala di legno. La porta era chiusa a chiave, l’aprì con una spinta.Si ritrovò in quella che sembrava una fabbrica abbandonata, c’erano alcuni telai lasciati all’incuria del tempo. Porte e finestre sprangate.Avanzò verso l’ingresso. Calciò la porta e uscì. Era in una zona industriale. Rumorosa di giorno, disabitata la notte. La struttura da cui usciva gli era estranea. I lampioni vicini erano spenti. Solo uno lontano illuminava l’inizio di un parco. Si avviò.
Camminava da molto, senza meta se non quello di arrivare alla fine del viale alberato. Poggiava i piedi nudi sulla terra irrigidita dal freddo, eppure non aveva nemmeno un leggero brivido. Jack non sentiva nulla. Si chiuse nei dubbi fin quando udì l’eco di passi brevi e veloci che si avvicinavano. Davanti a lui. Si nascose dietro un tronco. Attese.Una donna dalle vesti modeste, arrancava con la schiena ricurva. Sollevava ogni tanto lo sguardo per guardarsi intorno, era di passaggio. Portava un cesto coperto con un panno. Quando Jack la vide bene in volto, la riconobbe. «Signora Stevens!» la chiamò balzandole addosso. L’aria s’intrise di una nuvola bluastra, il suo alito. La signora Stevens sussultò per lo spavento. Jack le afferrò le spalle, fece per baciarle le guance. «Sono Jack Mo-» non riuscì a dire altro. Le grida furiose della donna scossero tutto il parco. Gli occhi della donna erano fissi e sgranati sul suo volto. Le vene del collo sembravano sul punto di esplodere. Si dimenava. Jack non si capacitava. Senza volere, le graffiò le vesti e poi la carne. Quando la donna vide il sangue, prese fiato e gridò ancora più forte.Il fischietto di una guardia lo convinse a fuggire. Fuggì fino all’alba, quando trovò rifugio sotto terra. Nelle fogne.La signora Stevens non lo aveva riconosciuto. Non solo, aveva gridato come se avesse visto il demonio in persona. Jack si toccò il volto, la testa. Non aveva più i capelli e sentiva delle croste sulle guance e sulla fronte. Il naso, solo due cavità. Seguì il corso del fiume sotterraneo. La sera riemerse solo per scoprire che era dato per morto. Casa sua, svuotata.Deforme e senza più passato, Jack andò nell’unico posto che sapeva essere sicuro. Balzò con un unico salto sul tetto di una casa in Black Hole Street. Accucciato come una chimera di pietra, osservò l’alba. L’indoratura gli infastidì gli occhi. Si coprì col braccio mentre l’aria fresca era graffiata dalla voce di un giovane che vendeva giornali: “Ultime dal Times. Donna aggredita dall’uomo-diavolo!”Il dottore era morto, ma Jack esisteva ancora. Da qualche parte e in altra forma.

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