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Mortier è uno a cui piace farsi sentire, non gli basta riprendere, deve manipolare, ingigantire o rimpicciolire (il campo aereo della locandina), trova soddisfazione estrema, lo si percepisce, nel lasciare un segno in ogni scena, frase, sequenza o parola che propone. Non è certo uno che mira alla sottrazione, lui punta a sovrabbondare, a rimpinguare la materia più scarna, cosicché anche la scena iniziale, una scena da prologo che vuole porsi in antitesi con il delirio che di lì a poco scoppierà, a causa della marcatura pedissequa dell’obiettivo che segue Sam nelle sue faccende si carica di una smaccata opulenza. Questo è ovviamente niente poiché a livello visivo vedremo un’esplosione di continue ricerche estetizzanti, e dal casus belli in poi (la bomba nel centro commerciale) Mortier galoppa a briglia sciolta infischiandosene di una qualsiasi coerenza narrativa per proporci la sua personale visione di cinema. Oh, bravo è bravo perché la declinazione che fornisce di ogni singolo plans invoglia all’applauso, eppure il fiume in piena di cartoline infernali (lo scenario post-scoppio è magnifico) e stranianti (gli incontri surreali con i fantasmi, ammesso che lo siano) non conoscendo pausa manca di una vera catarsi. Certo, c’è un finale che non esito a definire stupendo, ma che tuttavia segue la sua fastosa filosofia; l’espediente del rallenti è infatti un parallelo adatto: l’effetto evidenzia la dinamicità, la carica, permette all’occhio di carpire anche i particolari più piccoli (le pietre che volano, il sangue che fluttua nell’aria), altera la realtà: ed è proprio ciò che Mortier ama fare.
I veri problemi comunque sono altrove, perché denigrare una pellicola per il suo essere troppo estrosa sul piano visivo mi pare una pachidermica defecazione di fantozziana memoria. Le bugne tangibili, e qui il piccolo passo indietro rispetto all’opera prima c'è, si concentrano tutte in una sceneggiatura scombiccherata che fa qualunque cosa per ingarbugliarsi a più non posso. L’idea che il sopravvissuto alla tragedia possa successivamente interloquire con le vittime mi ha ricordato per una sghemba associazione di idee alcuni Dylan Dog vecchia maniera [1], quelli scritti principalmente da Sclavi o Chiaverotti, in cui le didascalie nelle vignette raccontavano non senza un pizzico di malinconia le vite (piccole) dei vari defunti costellate da dispiaceri (grandi). Mortier ripropone questo schema nel quale si evidenziano macchiette gradevoli (il tizio nel camerino) che però non sono ben accordate con il vagabondare di Sam nella città spettrale. Si rimbalza precipitosamente da una vicenda personale all’altra e nel giro di poche battute tutto si attorciglia chiudendosi in una spirale di irrazionalità. Anche la questione della figlia morta che dovrebbe avere discreta importanza è nebulosa nonché inconsistente.
Lasciamolo lavorare Mortier, io sono stato un po’ cattivello nei suoi confronti e probabilmente non lo merita affatto; trovare registi così meticolosi e originali nell’esposizione è pura manna, gli auguriamo soltanto di migliorare in fase di scrittura e allora sì che saremo pronti a celebralo come si deve._____[1] Casualmente c’è un episodio sempre di questa testata che si poggia sul medesimo meccanismo di 22nd of May. Si tratta del numero 202 della serie regolare scritto da Paola Barbato intitolato Il settimo girone, albo che – se non sbaglio – si ispira al racconto di Stephen King I langolieri.
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